Politics | Governo compulsivo

Fare o disfare, questo è il dilemma!

Le promesse elettorali, generalgeneriche e più ampie possibili in termini di elargizioni, fanno vincere le elezioni. Il popolo abbocca, ma dopo tre mesi addenta l‘amo.
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I vicepremier Di Maio e Salvini sono in affanno. Dopo aver promesso di tutto e di più adesso si accorgono che hanno indovinato il calcolo della campagna elettorale, ma hanno sottovalutato quello sui conti. Già proiettati verso le elezioni europee temono che realizzare in dosi omeopatiche le gigantesche promesse elettorali potrebbe non bastare per incamerare un’altra e strategicamente ancora più importante vittoria. Potrebbero esser frenati nella realizzazione del „cambiamento“ da dati negativi sul mercato del lavoro, da minori entrate fiscali rispetto alle ottimistiche previsioni, dalla mancata crescita economica, additata come principale effetto delle riforme, dagli sviluppi sui mercati finanziari, dal ricambio di Draghi alla guida della BCE… Perciò insistono a voler far partire il ribattezzato reddito di inclusione con una somma di 780 Euro a persona a partire da aprile del prossimo anno (a maggio ci saranno le elezioni europee), a far andare in pensione 300.000 persone nel 2019 con la quota 100 e a mostrare maniche larghe sul condono fiscale, alzando il tetto fino a 500.000 Euro. Naturalmente i rispettivi beneficiari non si lamenterebbero, e non li si potrebbe rimproverare per l‘atteggiamento opportunistico. Questo ormai fa parte della cultura dell’adattamento in un contesto di competizione clientelare, degrado istituzionale ed avventatezza normativa.

Vendita di prodotti contraffatti

In verità, il reddito di inclusione l’ha già introdotto il governo Gentiloni con D.L. 147/2017. Di Maio non ha fatto altro che rinominare la misura già esistente, mettere mano a qualche vite di regolazione e spacciarla sfrontatamente come innovazione targata M5S. Il reddito di inclusione non è un reddito di cittadinanza. La peculiarità di quest’ultimo è che rappresenta un reddito di base incondizionato, mentre il primo è legato ad alcune condizioni che la proposta del governo riconferma e regolamenta in dettaglio. Per giunta al „reddito di cittadinanza“ del M5S andrebbe cambiato il nome in modo da rispecchiare anche la sostanza del provvedimento. Siamo in una situazione in cui non c’è più differenza tra un’autovettura ed un intervento legislativo. Di autovetture ce ne sono di tutte le marche e ciascuna casa automobilistica si supera nel lanciare sul mercato innumerevoli modelli, differenziandone addirittura all’interno dello stesso modello i nomi sulla base di dettagli tecnici o di target commerciale. In relazione alle autovetture la rappresentazione fotografica e la nostra memoria mercantilizzata facilita l’accostamento tra il nome ed il prodotto. In politica, come dimostra questa fanfaronata ed allo stesso modo l‘epiteto tanto fantasioso quanto inappropriato coniato per un’altra misura del governo, il cosiddetto „decreto dignità“ abbiamo bisogno che l’etichetta di un intervento legislativo sia autoesplicativo. Per facilitare, poi, la comprensione a livello internazionale, ci si dovrebbe mettere d’accordo nell’ambito dell’UE, come indicare rispettivamente il reddito di cittadinanza ed altre misure non assimilabili a questo nelle varie lingue.

Moltiplicazione dei pani

A Di Maio va dato atto che come ministro del lavoro fa bene ad insistere su una tale misura perchè in una situazione di stallo economico e di un mercato del lavoro deregolato ed in parte soverchiato da nuove forme di occupazione c’è bisogno di misure specifiche di sostegno per i disoccupati ed i tantissimi giovani non occupati. Sono già state introdotte in tutta l‘Europa, tranne la Grecia che si appresta a farlo. Anche qui l’Italia dimostra un colpevole ritardo nella capacità di esprimere policies adeguate rispetto alle sfide che deve affrontare. Andrebbe, però, verificato con rigore sistemico, se in questo momento è proponibile stabilire per questa misura un importo di 780 Euro, cioè il più alto valore esistente in tutta l’Europa, e ciò con la situazione dei conti in cui l’Italia si trova. Fintanto che i centri per l’impiego non saranno in grado di far fronte al compito di ricollocare efficacemente le persone senza lavoro e di fornire una consulenza di alto livello e fintanto che non saranno definiti adeguatamente i profili professionali ed i rispettivi contenuti formativi per i necessari interventi di riqualificazione o di riconversione professionale, l’acclamato intervento di politica attiva del lavoro rimane una mera misura assistenziale.

Rispetto agli 80 Euro di Renzi è lampante la moltiplicazione dei pani. Forse è questo che intendono gli attuali governanti quando dicono che ci vuole coraggio. Bisognerebbe, però, verificare prima cosa lo stato può permettersi dal punto di vista finanziario. Come con l’aumento delle pensioni minime, annunciato a gran voce a suo tempo da Berlusconi, anche rispetto al reimpostato REI probabilmente si assisterà ad una riduzione consistente del target oppure ad una riduzione dell’importo. In tale prospettiva è stata impostata la seconda operazione di marketing: Dato che la legge finanziaria verrà approvata soltanto in dicembre e che ci potranno essere degli aggiustamenti dell’importo in basso, Di Maio ha pensato bene di indicare una cifra molto alta per essere sicuro dell’effetto mediatico nell’immediato. Se l’importo reale, poi, scendesse a 500 o 400 Euro, rimarrebbe comunque l’imprinting nel ricordo della gente che lui si è battuto per introdurre questa misura, anche se c’èra già, lottando contro l’Europa e contro oscuri congiure per realizzarla. Una soluzione più consona e coerente sarebbe, oltre alla verifica dei requisiti d’accesso previsti, definire l’importo del sussidio sulla base del costo della vita e modularlo a seconda dell’effettivo costo della vita nel rispettivo territorio di riferimento.

Il consenso permette di alzare via via l’asticella dell’audacia

Se la „manovra del popolo“, secondo i sondaggi, può contare sul consenso della gente, ciò è dovuto in principal modo all‘abile manovratore del popolo che è Salvini. In barba alle posizioni una volta assunte, con la sua imperturbabile disinvoltura e sfrontatezza riesce a rassicurare la gente di essere in buone mani. Qualche esternazione sopra le righe viene attribuita alla forza di carattere ed alla necessità di una guida che affronti con decisione gli avversari che, di volta in volta, chiama in causa. L’opinione pubblica si scaglia, quindi, contro putativi ostacoli al benessere dell’Italia come gli immigrati, i mercati finanziari o l’Europa, e gli lascia mano libera sulle politiche da portare avanti, financo disinteressandosi della svolta da lui voluta sulla politica fiscale. Salvini ha un suo obiettivo preciso da realizzare per venire incontro ai piccoli imprenditori, da sempre il target politico centrale della Lega, e cioè un consistente condono fiscale. Anche lui vuole dimostrarsi generoso. Era partito dalla comprensione per i piccoli imprenditori strozzati dai loro debiti verso il fisco e dal proposito di costruirgli un ponte assistenziale per rimetterli in carreggiata e dare una mano a salvare posti di lavoro. Via via alzando l’asticella della consistenza dell’intervento, ormai non si accontenta di permettere un abbattimento degli interessi e della sanzione a chi ha debiti verso il fisco, come fece il governo precedente. Vuole un vero e proprio condono tombale. Il limite prima stabilito a 100.000 Euro verrà alzato a 500.000 Euro. Le somme da pagare saranno irrisorie, se passa la proposta di fissare la quota al 5 per cento del dovuto con la cancellazione degli interessi a carico e delle sanzioni previste. A Salvini non gli importa, se un tale intervento irride allo stato di diritto, all’etica del buon padre di famiglia ed a tutti i contribuenti in regola. Berlusconi docet. E gli insegnamenti, evidentemente, danno i frutti auspicati.

Dare gradualità alla logica economica della riforma pensionistica

Anche l’allentamento della riforma Fornero potrebbe essere impostato con più gradualità e ragionevolezza.La cancellazione della legge Fornero (n. 214/2011) è sicuramente un obiettivo centrale dell‘attuale coalizione di governo. I leader delle forze politiche trainanti del governo sembrano decisi ad abbatterla. Cosa vogliono cambiare in concreto? L’innalzamento dell’età pensionabile delle donne del pubblico ed il suo allineamento con quella degli uomini erano già stati oggetto di provvedimenti precedenti e dovuti alla necessità di parificare i relativi trattamenti pensionistici. Nel 2011 l’alzamento dell’età pensionabile per tutti e l’estensione del calcolo contributivo, introdotti con il D.L. 06-12-2011 n. 201, poi convertito in legge, rappresentavano misure ragionevoli dal punto di vista della tenuta del sistema pensionistico, ma erano stati introdotti in primo luogo perchè serviva in fretta e furia una manovra per salvare l’Italia dall’imminente default.

La fredda logica dei tecnocrati non è stata contemperata con riguardo alle legittime attese delle coorti di lavoratori e lavoratrici vicini al pensionamento ed agli effetti sociali che un intervento produce che aumenta l’età pensionabile in un colpo fino a quattro anni nel settore pubblico. In particolare sarebbe stato necessario tenere conto che la biografia contributiva delle donne si discosta molto da quella degli uomini. Non potendo più intervenire sulla situazione delle donne che, dal 2012 al 2018, hanno dovuto affrontare periodi di lavoro aggiuntivi, ora sarebbe appropriato e doveroso introdurre una misura che riesca a colmare lo svantaggio delle donne nell’accumulo di periodi contributivi dovuto a periodi di inattività dedicati alla famiglia, in primis riconoscendo a pieno titolo determinati periodi per l’accesso alla pensione. Ad oggi le donne devono sostenere sia il peso della responsabilità familiare che un consístente svantaggio nell’accesso alla pensione. Un intervento mirato del governo che riconosca in termini figurativi periodi di maternità al di fuori dell’attività lavorativa nonché periodi di cura di familiari rappresenterebbe un’innovazione vera e quanto mai necessaria. Sviluppando ulteriormente impostazioni già presenti in nuce si potrebbe dare carattere strutturale alle agevolazioni previste per il pensionamento delle donne da APE social.

Mentre questa circostanza non è stata considerata in alcun modo, negli anni a seguire è venuta fuori la questione degli esodati e delle professioni particolarmente usuranti che, per ragioni differenti (gli uni per aver subito uno spiazzamento dovuto alla perdita del lavoro ed alla contemporanea introduzione di una riforma che non gli permetteva più di accedere a prepensionamenti, gli altri perchè non più in grado di svolgere lavori particolarmernte pesanti) ambiscono ad un’anticipazione del pensionamento. C’è da dire, tuttavia, che attese ancora concentrate sul vecchio modello dell’uscita precoce dal mercato del lavoro che va a carico della fiscalità non contemplano alternative valide come la riconversione professionale che permette una più lunga permanenza nel mercato del lavoro e modalità di uscita fessibile nel periodo antecedente al raggiungimento dell’età del pensionamento nonché possibilità adeguatamente incentivate di continuare l’attività lavorativa contemporaneamente alla ricezione della pensione.

Data l’impossibilità di rimettere indietro le lancette dell’orologio si infittisce l’impressione che la „Legge Fornero“ rappresenti soltanto un vecchio totem dell’antagonismo tout court all’establishment. Non si capisce quali fossero gli inasprimenti ivi contenuti da cancellare. L’art. 24 comma 1 lit b) della legge 214/2011, peraltro, parla espressamente della „flessibilità nell’accesso ai trattamenti pensionistici“, per cui, più che a cancellarla bisognerebb pensare a come dare concretezza a questa indicazione. Tornare al sistema retributivo sarebbe comunque un messaggio deleterio per ogni ambizione di riforma che tenga conto dell’inversione del rapporto tra popolazione in età lavorativa e popolazione over 65 nonché del consistente aumento del periodo di fruizione della pensione. Ad oggi rispetto ad un’età nominale per la pensione di vecchiaia di 66 anni e 7 mesi ovvero di 42 ovvero 41 anni e 10 mesi di contribuzione per il pensionamento anticipato l’età di pensionamento reale è ancora ferma ad una media di 62 anni, la più bassa in Europa. Il prolungamento dell’attività lavorativa rappresenta un obiettivo condivisibile, se attuato con gradualità e se collegato ad incentivi invece di imporlo da oggi a domani, come è successo con la legge Fornero.

Invece di entrare a gamba tesa sulla logica di riforma del sistema pensionistico sembrerebbe condivisibile ed auspicabile introdurre alcune misure di modulazione flessibile. Si potrebbe anticipare una parte della pensione a chi in età tra i 62 ed i 67 anni non ha ancora diritto alla pensione e si trova obiettivamente in difficoltà perchè disoccupato o comunque non più inserito nel mercato del lavoro, per garantire un sostegno per il costo della vita. Al contempo andrebbe permesso di tenere aperta la posizione lavorativa e permettere di integrarla con altri periodi di contribuzione per lavoro e per lavori socialmente utili (definendone requisiti coerenti), puntando su incentivi e sulla possibilità di valorizzare le competenze delle persone anziane per una società in progressivo invecchiamento e con crescente bisogno di servizi per la comunità e per le persone. In generale, la conclusione che si può trarre è che, se Di Maio e Salvini uscissero dall’ossessione, da loro stessi alimentata, di dover affrontare tutti i problemi dell’Italia con la palla da demolizione, e si concentrassero su un piano graduale per risolvere prima le criticità principali e poi sviluppare coerenti programmi strutturali, avrebbero bisogno di meno budget nell’immediato e correrebbero meno rischi di impantanarsi. Vedremo, se ciò è compatibile con il loro ego, o forse ancora di più, con l’immagine che ne hanno creato e che rincorrono febbrilmente.