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"Siamo tutti naufraghi della crescita"

“La crescita economica è una sorta di religione che sta spingendo il pianeta verso un suicidio annunciato”.
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"La crescita economica è una sorta di religione che sta spingendo il pianeta verso un suicidio annunciato". Serge Latouche, economista, filosofo, antropologo e professore emerito di Scienze economiche all'Università di Parigi XI, è persona del tutto mite. Ma quando parla di economia non ama moderare i toni.

Intervista di Arturo Zilli

“Il Pianeta dei naufraghi” è il titolo di un suo libro che ha avuto molta fortuna in Italia. Da quando è stato pubblicato sono passati più di vent’anni. Chi sono oggi i naufraghi dello sviluppo?

Latouche: Non sono più gli stessi di allora. Ora siamo tutti quanti naufraghi dello sviluppo anzi, per meglio dire, della crescita. Per quanto riguarda la mia prospettiva teorica, sono passato dalla critica dello sviluppo alla teoria della decrescita. Tra le due c’è naturalmente una continuità anche se vent’anni fa non avevo ancora trattato quest’ultima tematica.

Perché?

Latouche: Si cominciava appena a parlare di globalizzazione. Ora viviamo in un mondo unico e i naufraghi si trovano anche nel Nord, non più solamente in quello che una volta veniva chiamato il Terzo Mondo. Non c’è più questa separazione tra mondi diversi. Il naufragio di intere società è sempre più forte e visibile come si vede anche in Grecia.

Lei parla di “impostura del Pil”. Per quale ragione? Di quale altri indici ci possiamo servire per misurare il benessere di un Paese?

Latouche: Credo che dobbiamo liberarci dall’ossessione degli indici. Le cose importanti nella vita di una persona non si misurano. Detto questo, esistono sicuramente indici importanti, come l’impronta ecologica che valuta il peso sulla Terra di ogni persona in termini di consumo di risorse naturali. Si tratta di una misura a mio parere molto più significativa del Pil perché ci fornisce un metro della capacità di avere un futuro. Devo dire che la critica del Pil non è una mia invenzione. È stata fatta sin dall’inizio. Gli stessi economisti che l’hanno inventato, hanno sostenuto chiaramente che non poteva essere usato per misurare la felicità o il benessere. Il Pil misura solo il prodotto mercificato o quello che può esservi assimilato. Anche grandi economisti come Joseph Stiglitz l’hanno criticato duramente.

Lei ha insegnato a lungo all’università. La sua teoria sulla decrescita trova sostegno e circola nel mondo accademico?

Latouche: Adesso sono in pensione e non ho più alcun rapporto con l’accademia. Prima ero ufficialmente un economista ma sono stato emarginato, anche dai miei colleghi eterodossi. Sono una pecora nera. L’essenza dell’economia è la crescita ed è comprensibile che le mie teorie non trovino grande sostegno tra chi insegna questa materia.

Lei afferma che il termine “sviluppo sostenibile” è un pleonasmo e un ossimoro. Può chiarire meglio questa sua opinione?

Latouche: Chi ha inventato questo termine è un tale Stephan Schimdheiny, erede della dinastia che produceva l’Eternit, che era stato processato e condannato – ma assolto da una sentenza della Cassazione, ndr. - a Torino per la strage di operai a Casale Monferrato, dove veniva lavorato l’amianto. È stato lui a lanciare questa idea e a fondare il World Business Council for Sustainable Development, la più grande lobby dei predatori del pianeta di cui fanno parte Total, Monsanto, Nestlé e altre multinazionali dai comportamenti quantomeno discutibili. Non vuole dire nulla. Si tratta solo di marketing. Non esiste sviluppo sostenibile anche se ammetto che come concetto di marketing ha funzionato benissimo. Tutti sono caduti nella trappola, anche tante ong ed ecologisti.

Credo che dobbiamo liberarci dall’ossessione degli indici. Le cose importanti nella vita di una persona non si misurano.
(Serge Latouche)

Allo sviluppo sostenibile voi contrapponete la decrescita, mi sembra di capire.

Latouche: Sì. Naturalmente non bisogna prendere la parola “decrescita” alla lettera. Anche in questo caso si tratta di uno slogan che però vuole denunciare l’impostura dello sviluppo sostenibile.

La decrescita, per i popoli come il nostro, che hanno vissuto un boom di benessere e di consumi dopo la guerra, può essere un’idea attraente. Per tanti Paesi come la Cina o l’India, che si stanno affacciando adesso a un certo benessere e al nostro livello di consumo, forse lo è meno. Come convincerli, dato che rappresentano quasi la metà della popolazione mondiale?

Latouche: Si potrebbe obiettare che sia la Cina che l’India sono società che, storicamente, non hanno ricercato la crescita. La Cina è stata forzata a entrare nell’ideologia della crescita attraverso due guerre dell’oppio, il colonialismo occidentale e il marxismo. Gli amici cinesi che ancora conservano l’antica cultura cinese del taoismo, del confucianesimo e del buddismo ci ricordano che per vivere bene ognuno deve limitare i propri bisogni. Ciò corrisponde pienamente alla filosofia della decrescita. Noi però siamo riusciti a iniettare la droga della società dei consumi anche in culture molto distanti dalla nostra. Penso e spero che sia una fase che durerà poco tempo, per amore o per forza. La stessa cosa vale per l’India.

Ma senza crescita, ci può essere occupazione?

Latouche: È stato così per secoli, quando non si sapeva cosa fosse la crescita. Il lavoro c’era lo stesso! Oggi la crescita non porta ad alcun aumento dell’occupazione. Anche con una crescita del 2% - il massimo che ci possiamo augurare nei prossimi anni – non ci sarà più occupazione di prima. Ci vuole almeno un 3%, cosa praticamente impossibile. Dobbiamo quindi rinunciare a legare crescita e occupazione. Per risolvere razionalmente la disoccupazione, bisogna riconvertire ecologicamente l’agricoltura, i trasporti, la produzione ecc. e alla fine ridurre gli orari di lavoro. Non c’è bisogno di lavorare così tanto. Produciamo troppo e dovremmo produrre meno per scongiurare la distruzione di interi ecosistemi. Dobbiamo lavorare meno, lavorare tutti e vivere meglio.

Serge Latouche è stato invitato dall’unibz lo scorso giugno a Bressanone a tenere una lezione del corso "Con gli occhi degli altri. Dialogo interculturale e sviluppo della società" nello Studium Generale – tenuto dalla profesoressa Susanne Elsen e da Francesco Comina del Centro per la Pace di Bolzano - l’economista francese ha spiegato la strategia della decrescita i cui capisaldi sono la sobrietà, la convivialità e le “8 R” (cioè Rivalutare, Ricontestualizzare, Ristrutturare, Rilocalizzare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare).

 

Academia #71 – Weniger ist mehr | Meno è meglio | Less is more

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