Society | Accoglienza

Il confine di Lampedusa

Le impressioni del direttore della Caritas diocesana in visita sulle rive del 'Mare Nostrum'. Attraverso il quale anime e sopravvissuti interrogano le nostre coscienze.

Il cimitero di Lampedusa ha un angolo di terra sul quale si allineano disordinate le croci di legno dei migranti morti in mare. Come piccoli alberelli bruciati dal sole. Nessun nome, tutti i nomi.
In questi giorni di inizio ottobre 2014 sull’isola non ci sono migranti. Il Centro di prima accoglienza è in stand by, riaprirà ai primi di novembre. Da quando si è avviata l’operazione Mare nostrum, le persone sono recuperate al largo e condotte nei centri di identificazione (e di espulsione) sulla terraferma. “Lo scopo del pattugliamento”, ripetono i responsabili della sala operativa della Capitaneria di Porto, “non è militarizzare i confini, ma salvare vite umane”. Quel “salvare vite umane”, pronunciato con orgoglio da uomini in divisa, suona tanto vero, quanto invece ipocrita è il nostro “aiutiamo l’Africa in Africa” (forma soft del “prima i nostri”) e quanto disumane sono le nostre manifestazioni contro un’accoglienza dignitosa a chi fugge da guerre, persecuzioni e miseria. “Aiutarli a casa loro? Sarebbe meglio prima non danneggiarli a casa loro”, suggerisce Giampiero a “Porto M”, il museo che espone oggetti raccolti in mare e fa opera di controinformazione.

“Mare nostrum”: vorrà dire che quel mare è “nostro”? Le acque e ciò che esse contengono? Corpi e anime, barche sfasciate e stracci inzuppati, urla di disperazione che si confondono col garrito dei gabbiani, come la mattina del 3 ottobre 2013, quando il barcone affondò a mezzo miglio dalla costa e sul molo di Lampedusa furono ricomposte, nei dieci giorni successivi, le salme di 366 uomini, donne, bambini che non arriveranno mai a Bolzano, al Brennero o in qualsiasi altro porto della fortezza Europa. “Mare nostrum” significa forse che quelle vite (e quelle dei 155 superstiti) sono “nostre”, ci appartengono, ci riguardano.

Fa un certo effetto guardare il mare di Lampedusa, intuire nel blu le oscillazioni dei cadaveri sospinti dalle onde, mentre altrove i professionisti del “cattivismo” dipingono chi ce l’ha fatta come un babau da tenere alla larga dal centro città, lontano dagli auditorium o dai parchi giochi per i (nostri) bambini. 

A Lampedusa si coglie la differenza tra i numeri aridi e gli esseri umani, tra la fredda statistica e la vita. Non c’è alcun migrante sull’isola, in quest’autunno 2014, eppure negli ultimi anni ne sono passati a decine di migliaia. Il dottor Bartolo, responsabile del presidio sanitario, ha eseguito infinite ispezioni cadaveriche ma, dice, “alla morte non ci si abitua”. Gli capita, qualche notte, di rivederli tutti, quei volti. “Ognuno ha un particolare che mi è rimasto impresso”. Come dire: sono persone, ciascuna con la sua individualità e il suo sogno infranto, non cifre con cui giocare, farsi dispetti, andare a caccia di voti.

Lampedusa è mare, è terra dura, fatta a strati così come i popoli, nel fluire dei secoli, si sono sovrapposti l’uno all’altro. È Africa ed è Europa. Provincia di Agrigento, ma a sud di Tunisi. La “Porta d’Europa”, installazione artistica, si affaccia sugli scogli attorniata dalle rovine di bunker in cemento armato. È la contraddizione del confine, che apre e chiude, accoglie e respinge. Nel cuore del Mediterraneo come sullo spartiacque alpino. 
La stessa gente di qua e di là. Le stesse braccia tese, lo stesso ritrarsi paurosi.