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La cronologia dell'acqua

Quello di Lidia Yuknavitch è un memoir senza paura.
La cronologia dell'acqua
Foto: salto.bz / nottetempo

Ci sono libri che, prima ancora di essere apprezzati per la qualità stilistica, lasciano il segno per il coraggio di chi scrive di raccontare la propria storia. Questo è il caso di “La cronologia dell’acqua” – scritto da Lidia Yuknavitch e pubblicato da nottetempo –, un memoir che dalla prima pagina immerge il lettore in un’esistenza, quella dell’autrice, fatta di violenza, dipendenze, autodistruzione, amori, amicizie, passioni, morte e sopravvivenza. Questa è probabilmente una lista che si trova in altre trame; relazioni tossiche, abusi di sostanze, padri brutali, madri assenti non sono condizioni che mancano tra le pagine della letteratura odierna, ma ne “La cronologia dell’acqua” c’è un elemento raro: la totale assenza di retorica.

La cronologia dell’acqua” inizia con la nascita di una figlia morta e prosegue con episodi che sanno di atrocità, episodi questi che vedono nell’autrice-protagonista talvolta la destinataria della ferocia, talvolta la responsabile, ma mai la vittima. Nel condividere la sua storia, infatti, Lidia Yuknavitch non utilizza il vocabolario della perseguitata: tutti i fatti sono narrati con un tono di oggettività che non permette di provare compassione senza per questo compromettere il sentimento di partecipazione. La nettezza e la linearità che contraddistinguono lo stile di Yuknavitch sembrano far trapelare una totale accettazione dei lati più scuri della vita. La mancanza di retorica si riflette anche nella scelta di non trovare giustificazioni per i propri errori e nella possibilità di ridere di tutto: Yuknavitch non si fa beffe delle tragedie della vita, ma rinuncia a nascondere il lato tragicomico della vita. “La cronologia dell’acqua” non è però un manuale sulla condiscendenza, piuttosto sulla consapevolezza. Sembra, infatti, che l’autrice non sia disposta a edulcorare nulla in cambio di una maggiore e più immediata solidarietà. Ogni vicenda viene narrata per come è stata: quella di Yuknavitch è una narrazione nuda, cioè sfacciata, essenziale, priva di spiegazioni.

Dalla prima fino all’ultima pagina del libro, Yuknavitch condivide i suoi ricordi, il suo dolore e la sua gioia rivolgendosi direttamente a chi legge, una scelta che si traduce in immediatezza e in confidenza. Man mano che si avanza nella lettura del memoir, si impara a conoscere l’autrice e non ci si meraviglia più per una sua risata “fuori luogo”. Ne “La cronologia dell’acqua” Yuknavitch non scrive solo la sua esperienza, ma racconta come il dolore possa non avere fine, come il meccanismo dell’autosabotaggio possa assumere tratti consolatori, come la felicità possa arrivare senza essere realmente attesa. Le pagine di Yuknavitch non fanno piangere anche quando accolgono scene strazianti e questo è possibile per l’estrema cognizione di quello che sta avvenendo anche quando si tratta di autodistruzione. Nel capitolo “Sognare in donne” c’è una sorta di consigli d’uso di lettura di alcune scrittrici: accanto a Adrienne Rich che “si è tuffata negli abissi prima di te”, o a Margaret Atwood e Doris Lessing che insegnano quando bisogna “raddrizzare la schiena, quando è il tempo di ridere e di ingollare l’alcol, quando è il tempo di piangere e con chi, quando è il tempo di imbracciare un fucile”, mi piacerebbe inserire Lidia Yuknavitch che insegna a dire le cose come stanno.