Allen & Polanski
Che cosa hanno in comune i due cineasti Woody Allen e Roman Polanski? Entrambi ultraottantenni, entrambi hanno alle spalle una lunga carriera come registi, sceneggiatori, attori, avendo entrambi anche recitato in alcuni dei loro film… Il primo è considerato una stella nella commedia brillante e il secondo nel genere drammatico. E – entrambi hanno – non solo recentemente – avuto problemi di accuse di violenza sessuale nei confronti di minori, e quindi sono rimasti coinvolti dal movimento nato nel 2017 di #me too. Woody Allen è stato “castigato” con il film girato in quell’anno A Rainy Day, ossia quel Giorno di pioggia a New York attualmente nelle sale italiane e del Filmclub tra Merano e Bolzano. Il produttore Amazon si è immediatamente ritirato, chiudendo ogni relazione futura con il regista di famosi film quali Manhattan, Zelig, La rosa purpurea del Cairo, Hannah e le sue sorelle e in anni più recenti Midnight in Paris, To Rome with Love o Blue Jasmine, mentre alcuni degli attori hanno subito devoluto l’importo guadagnato ad associazioni di beneficienza. Inoltre il film (per ora) non esce negli Usa. Polanksi invece è stato “castigato” alla mostra del cinema di Venezia, dove sin dalla comunicazione della presenza del suo L’ufficiale e la spia sul caso Dreyfuss era stato contestato e non solo, la presidente della giuria, la cineasta spagnola Lucrezia Martel lo ha boicottato nel palmarès sottolineando che quel Premio speciale della giuria assegnatogli non era stato votato all’unanimità… Pertanto Alberto Barbera, direttore della Biennale del cinema, dichiarò che lui “distingue tra l’uomo e l’artista”, ossia tra Polanski e il suo film, o meglio la sua opera artistica.
Il titolo originale in francese del film, una coproduzione franco-italiana, è ben più forte urlando un J’accuse a grandi lettere dal manifesto cinematografico. “Io accuso”, dice quindi Polanski e lui stesso ha ammesso in diverse interviste una stretta relazione tra il soggetto - il caso giudiziario di Alfred Dreyfuss, condannato da una corte marziale nella Francia di fine Ottocento per alto tradimento, ma di fatto innocente e l’unico motivo era che fu ebreo - e la sua storia personale di perseguitato dalla giustizia statunitense per la violenza su una minorenne nel lontano 1977 durante una festa e – pare – sotto effetto di stupefacenti. Negli Usa è tuttora attivo il mandato di arresto nei suoi confronti (benché la donna abbia da tempo ritirato la denuncia e l’accusa), tant’è che Polanksi non si era presentato al Palazzo del cinema al Lido per ritirare il Leone vinto dal film, bensì ci fu la moglie Emmanuelle Seigner, al suo fianco come attrice sin dal 1988, anno di Frantic (assieme a Harrison Ford). Troppo vivo, forse, il ricordo di ciò che era accaduto nel 2009 quando il regista si era recato a Zurigo per ritirare un premio ed era finito in cella, a partire dalla quale dovette poi terminare il film che stava girando, The Ghostwriter. Che cosa accusa nel film attuale il suo autore, dunque? Soggetto e sceneggiatura sono basati sul libro omonimo dell’inglese Robert Harris (già autore del libro da cui Polanski aveva tratto il già menzionato Ghostwriter) e che narra la storia del colonello francese Picquart che scoprì l’innocenza di Dreyfuss e con prove alla mano denunciò i diversi meccanismi di intrighi latenti nelle istituzioni, dal capo dei servizi segreti al ministro, dal generale militare alla corte marziale… Sta qui l’estrema modernità e contemporaneità di questo film intenso che viaggia su vari livelli, un film in cui i personaggi vestono uniformi storiche ma sono di una attualità stupefacente. La manipolazione della verità dei fatti e il ruolo della stampa, la determinazione con cui si continua a negare dati evidenti e la lentezza con cui procede la macchina della giustizia, quella autentica. Perché alla fine Dreyfuss venne dichiarato innocente, ma soltanto dopo aver scontato diversi anni di pena.
Il caso Dreyfuss è affascinante proprio perché offre la possibilità di guardare a fondo nella macchina che produce prove false, dichiarazioni false, e di come queste vanno ad assumere le caratteristiche di prove “vere” e dichiarazioni “vere”, eccetera. Polanski si muove con leggerezza negli spazi angusti di una fine Ottocento in cui già sbrodolava ciò che poi sarebbe emerso con ferocia nel nazifascismo pochi anni più tardi in tutta Europa, un’inclinazione che andrebbe analizzata per non cascarci un’altra volta. La caccia alle streghe fa gola sempre e ovunque. Gli attori, a maggioranza maschili, per lo più grandi nomi del cinema (da Jean Dujardin nel ruolo di Picquart a Louis Garrel in quello di Dreyfuss a André Marcon in quello dello scrittore Emile Zola), si muovono con naturalezza negli ambienti e Polanski ha una attenzione particolare verso i singoli personaggi, avvicinandosi molto con la macchina da presa, quasi a voler puntare l’indice e al contempo voltare l’immagine a mo’ di specchio – non dimentichiamo che gran parte di personaggi simili dell’oggi si trovano seduti in platea…
Arriviamo al film di Woody Allen, tutt’altra storia. Anche lui focalizza molto sui personaggi, una giovane coppia di studenti di un campus che decide di passare un fine-settimana nella città della Grande Mela, in quanto lei, Ashleigh (da notare la similitudine col nome di Ashley, personaggio femminile di Via col vento) ha un incarico di fare una intervista a un regista famoso sul suo nuovo film e lui, Gatsby (anche qui abbiamo un richiamo cinematografico, al Grande Gatsby, il dandy per eccellenza del cinema hollywoodiano) è originario di New York. Lei - una teenager nevrotica, eccitata, talentuosa, lui - un teenager sobrio, nostalgico e amante della musica. Odia la cultura a causa della madre, signora dell’alta società e gran organizzatrice di salotti e feste, piuttosto il tipo solitario, pare, attira su di sé l’interesse di diverse donne, giovani e meno giovani, contro la sua volontà. La storia potrebbe essere tutta qui, se non piovesse sempre. Questa pioggia fa parte della sceneggiatura, ed è tutta artificiale – confessa Woody Allen in una bella chiacchierata riportata dal settimanale tedesco “Die Zeit”. Sarebbe stato sempre bel tempo nel corso delle riprese, dice il regista. Un sole splendente estivo, sarà per questo motivo che le luci – curate dall’asso della fotografia, Vittorio Storaro – riflettono sempre, anche quando non dovrebbero, una forte luminosità solare dall’impronta di un tramonto perenne?
Il film non ha avuto critiche controverse per la storia riguardante il #me too, salvo ciò che abbiamo già detto, no, le ha avute a causa di una apparente stanchezza del regista che qui avrebbe fabbricato un flop, anzi un’opera malriuscita, su tutti i livelli. Non condividiamo per nulla questa tesi, anzi, i dialoghi che ricordano sì brani noti, scene che si ripetono e ricordano sì altre di altri film, personaggi esagerati, ci riconducono piuttosto a una bruciante attualità nella loro superficialità di interazione con l’altro e l’altra, così come nella insicurezza amorosa e al contempo nella spudoratezza nelle relazioni sessuali delle giovani generazioni e non, nei tradimenti e nelle fedeltà, nel sognare e nell’inventarsi di tutto per riuscire a sopravvivere. La madre tanto acculturata del giovane dandy (un ottimo Timothée Chalamet) si rivela essere una prostituta di vecchia data di cui si era innamorato il padre a suo tempo, e fu proprio lei a svelare il gioco trucchetto intavolato dallo stesso Gatsby per salvare la propria immagine. Quasi a volersi prendere gioco del #me too rovesciandone i ruoli, per rivendicare la forza delle donne – in tutti i sensi – e la posizione centrale dell’amore, al di là di ogni impronta sessuale, che per altro si manifesta anche nelle numerose situazioni narrate a lato della giovane coppia al centro del plot. Un giorno di pioggia a New York, dove la pioggia si fa metafora della franchezza che nelle relazioni ha il potere di “lavare” costrutti fortuiti, sciogliendo maschere autoprodotte e/o immagini stampate da altri sulle nostre facce.
Non importa che il finale non abbia logica, in quanto vien da chiedersi: quale logica si applica nell’amore? Un film sfilacciato? Certo, non segue la linearità di un racconto, quanto piuttosto una moltitudine di aspetti, varianti, possibilità di evoluzione di singole situazioni – e anche qui: quante probabilità di evoluzione ci sono nella realtà? Woody Allen ha voluto, forse, mostrarci ciò che potrebbe accadere in ogni momento, accanto, attorno a noi, se non a noi direttamente. Basta che accettiamo le leggi della finzione e che cos’è, a volte, la realtà, se non una narrazione di eventi, fatti e sentimenti selezionati con cura da ognuno/a di noi? Facciamoci irrorare da impulsi e stimoli, a luci spente, anzi no, a luci dichiaratamente artificiali, a rumor di pioggia, dichiaratamente artificiale, e godiamoci lo scorrere delle onde sonore del parlato che – questo sì – nei film di Allen abbonda sempre.