Culture | Recensione

L'arte come dialogo di Francesco Vezzoli

La nuova mostra cerca di piegare la resistenza del pubblico e riportare l’astronave del Museion sulla terra del comune apprezzamento.

Mattina infrasettimanale, ho un paio di ore libere e il Museion a completa disposizione. Non si tratta di un’affermazione spocchiosa: alle ore 10.00 il contenitore bolzanino di arte contemporanea è davvero pressoché vuoto e chi lo sta visitando (il sottoscritto e altre quattro persone, contate) può aggirarsi liberamente per i suoi tre piani in compagnia esclusiva dei propri pensieri e delle opere esposte.

Il programma propone una monografia di un artista/curatore, Francesco Vezzoli, che si annuncia funzionale a una sorta di relaunch: ancora fresche le polemiche sull’opera letteralmente spazzata via da alcune addette alla pulizia del locale, per non parlare di quelle a proposito della sospensione del servizio Wi-Fi all’esterno della struttura, è come se ogni volta qui si stesse per sostenere un esame o effettuare una ripartenza, segnale di una relazione problematica tra la direzione museale, le istituzioni che ne sostengono l’attività e un pubblico (quest’ultimo non necessariamente coincidente con quello che poi davvero viene in visita) tendenzialmente sospettoso, se non addirittura ostile di fronte a scelte avvertite come difficilmente comprensibili.

Prima di stabilire un contatto diretto con le opere, quindi, si tratterebbe di formulare due quesiti preliminari: Francesco Vezzoli è l’artista giusto per rifondare un rapporto positivo, un dialogo proficuo con il pubblico che deciderà di pagare i 7 euro d’ingresso? E ancora: è possibile sintetizzare in modo chiaro un tipo di operazione che, concepita come unitaria, almeno potrebbe compiacere una delle formule più inossidabili di questo stesso rapporto? In altre parole: dove sta il messaggio da comprendere e portare a casa con un minimo di soddisfazione?

Di cosa stiamo realmente parlando quando parliamo di arte contemporanea?

Lo potevo fare anch’io?

Lo potevo fare anch’io è il titolo di un fortunato libretto, scritto da Francesco Bonami, per spiegare a dei lettori definiti “distratti ai lavori” – in pratica chiunque, come la maggior parte dei bolzanini, si trovi casualmente a vagare per le sale di un’esposizione con uno stato d’animo piuttosto scettico – di cosa stiamo realmente parlando quando parliamo di arte contemporanea. Secondo l’autore questa è la domanda chiave per distinguere tra un atteggiamento consapevole del divorzio tra arte e abilità tecnica sancito dai principali movimenti avanguardistici del Novecento (diciamo a cominciare dalle opere di Marcel Duchamp) e un atteggiamento, al contrario, che permane in una condizione di ingenuo stupore, propria di chi è disposto (o disposta) a concedere la sua ammirazione solo se ciò che vede gli conferma che no, lui (o lei) non sarebbe proprio riuscito (riuscita) a farlo. Potremmo discutere a lungo su un tale discrimine, ma – prendendolo momentaneamente per buono – occorre investigarne adesso l’occorrenza davanti a dei manufatti concreti. La mia personale risposta è che uno come Vezzoli giochi sapientemente sul crinale, e quindi possa persino piacere a chi si aspetta per l’appunto un surplus di abilità tecnica davanti al quale rimanere “colpito”. Tuttavia, se paradossalmente il gioco si limitasse a questo, l’operazione non si solleverebbe di molto oltre l’asticella di una pigra gradevolezza. Per fortuna non è così.  

Il racconto non si limita mai ad esporre ciò che è raccontato, ma diventa anche l’esposizione di questo stesso raccontare, ponendosi in una relazione irriducibile rispetto a qualcosa di definitivamente presente

Museo-Museion (l’arte è un dialogo)

Faccio un po’ finta di divagare per avvicinarmi meglio al tema, cioè a quel famoso e sfuggente messaggio che si tratterebbe di comprendere e portare a casa. Quando raccontiamo una città (e per estensione una civiltà, i suoi prodotti) raccontiamo necessariamente il racconto che ne facciamo. Il racconto non si limita mai ad esporre ciò che è raccontato, ma diventa anche l’esposizione di questo stesso raccontare, ponendosi in una relazione irriducibile rispetto a qualcosa di definitivamente presente. Muovendo da una simile intuizione, è quindi importante minare l’illusione di stabilità anche a proposito di quegli spazi che – prendiamo ad esempio un museo, visto che parliamo del Museion – sembrerebbero opporsi in linea di principio ad un’azione relativizzante. È questa, se vogliamo, la differenza principale tra il concetto eminentemente conservativo e quello di specchio riflettente il dinamismo che oppone un contenitore di oggetti considerati immodificabili ad uno che, al contrario, punta in modo programmatico a lasciarsi attraversare da un flusso di elementi in perenne modificazione. Bene, se volete capire cosa vi è capitato (o capiterà) quando avete visitato (o visiterete) la mostra di Vezzoli dovete immaginare di sostare esattamente lungo la linea di questo didascalico sdoppiamento: il Museo (non a caso, prima parola del titolo dell’esposizione) è il riferimento statico e facilmente accessibile a una tradizione in cui siamo collocati per fare però esperienza di qualcosa di dinamico, vale a dire le opere esposte nel Museion (seconda parola). Scegliere di mettere un’opera di Arnulf Rainer o di Piotr Uklański dentro, rispettivamente, una cornice appartenente a Il bacio di Francesco Hayez o alla Pietà di Giovanni Bellini, serve precisamente a fondare, animandolo, un tale dialogo.

Non esiste rivelazione che non produca una crepa nella nostra facoltà di giudizio

L’ultima rivelazione

Come nel caso di un’ascesa verso il paradiso, se sarete riusciti a passare attraverso l’infernale dialogo concettuale (in realtà si tratta, come sempre, dell’inferno che formiamo stando insieme, anche semplicemente vivendo) tra staticità e dinamismo, tradizione e contemporaneità, cornici e contenuti, è all’ultimo piano dell’esposizione che avrete l’ultima rivelazione. Le 20 sculture allineate ed elencate dalla luce delle grandi vetrate possono essere lette come un vero e proprio manifesto del concettualismo pop di Vezzoli, della sua poetica del dialogo. Statue antiche truccate come diafane attrici dell’epoca dei telefoni bianchi, l’opera Forme uniche nella continuità dello spazio di Umberto Boccioni incedente sui tacchi, e una doppia Sofia Loren trasfigurata in musa inquietante dechirichiana aprono varchi tra passato e futuro, da coprire in un percorso che tenta di ricucire la trama del tempo. In questo caso l’oscillazione del gusto raggiunge la sua massima estensione (impossibile decidere se il maquillage prodotto sui reperti archeologici, per esempio, rappresenti un gesto d’infedeltà trasgressiva o di sapiente ricostruzione filologica) fino a crepare l’unicità del giudizio (si tratta di cose belle o irritanti, autentiche invenzioni o dozzinali boutade?). Del resto, può darsi forse rivelazione senza che si produca una crepa nella nostra facoltà di giudizio?

Epilogo (Ground Control to Major Tom)

A quanto pare Vezzoli, visitando per la prima volta il Museion, ha detto: “Sembra un’astronave tra le montagne”. L’immagine ha un involontario retrogusto amaro. Il rischio, cioè, è che l’astronave continui a fluttuare nello spazio senza la possibilità di riavvicinare l’impervio pianeta del comune apprezzamento: “Here... am I floating in my tin can, far above the moon. Planet Earth is blue and there's nothing I can do”. Ma un annuncio non basta a preparare nel terreno le fondamenta della casa che si vorrebbe abitare (tra parentesi, una delle opere più belle della mostra è proprio l’opera di Mario Schifani Casa sola circondata dalla cornice dell’Annunciazione di Cestello di Botticelli). Per rianimare un’impresa intellettuale non basta, in effetti, tagliare il cordone ombelicale del sentire comune sperando che chi rimane là sotto tiri su il naso e si goda lo spettacolo di un infinito e splendido congedo. Anche l’arte più sofisticata ha bisogno di un riferimento aptico, persino in senso “bassamente” palatale. Forse la prossima mostra dovrebbe intitolarsi “Si prega di toccare”.