Pixel d’arte (con o senza aura?) in rete
Speriamo di poter presto tornare nelle gallerie d’arte o nei musei per fruire dal vivo le opere che di questi tempi di arresti domiciliari ci vengono proposte in massa in versione digitale. Certo, un’ottima modalità per tenere viva la relazione col proprio pubblico o anche per accrescerlo, visto che le piattaforme in rete non hanno limite spaziale e possono essere consultate ovunque, nel mondo intero! Evviva la possibilità di essere visti dallo studente canadese piuttosto che dall’amica del cuore oppure dal critico che già seguiva da sempre l’attività. Evviva la potenzialità di arrivare nelle case di chiunque possegga un computer o uno smartphone abilitato a visualizzare i contenuti messi online dalle diverse realtà culturali a livello mondiale. Soprattutto se pensiamo che secondo uno studio la quantità di informazioni, tra film e opere d’arte, messe online in questo breve periodo di confinamento in casa supera la quantità di ore di cui avremo bisogno per visionarle tutte fino alla fine della nostra vita! Tranquillizza, però, sapere che il Moma lo posso visitare comodamente seduta sul divano, mentre uno delle centinaia di migliaia di film messi online gratuitamente dalle varie cineteche posso guardarlo la sera, seduta sul balcone, gustando un buon bicchiere di vino. Per non perderci anche noi nel mare infinito di opere da pescare in rete, abbiamo buttato un occhio su una realtà museale vicina, di cui già altre volte abbiamo scritto e di cui conosciamo la struttura architettonica interna che ci rende più facile l’orientamento e la visualizzazione concreta della mostra che - senza vernissage - era stata aperta per un giorno soltanto: il 7 marzo 2020. Ressentiment a Kunst Meran/o Arte, la parte riguardante le arti visive all’interno del progetto più ampio di Parole del tempo che concerne anche la letteratura con i quattro volumi (in due lingue) editi da Edizioni Alphabeta Verlag e la musica con il festival Sonora 703 organizzato da Conductus e rinviato all’autunno.
Aprendo il sito di kunstmeranoarte.org compare subito in alto la scritta comune a tante altre realtà culturali attualmente chiuse: “In applicazione delle disposizioni previste dal decreto ministeriale (Dpcm) del giorno 08/03/2020 relative alla gestione dell'emergenza sanitaria COVID-19, Kunst Meran Merano Arte resterà chiuso al pubblico fino a data da destinarsi.” Ė quella dicitura finale “data da destinarsi” che ci preoccupa di più. Fino a quando dovremo aspettare per riuscire a vedere la bellissima e interessantissima mostra a cura di Christiane Rekade? Non osiamo pensare al fatto di non vederla dal vivo, perché questo nostro testo scritto unicamente sulla base delle immagini che troviamo online, rende soltanto l’impressione nata da una fruizione che voglio chiamare “indiretta”. Ho detto poco sopra che conosco la struttura architettonica, un dato che mi aiuta a immaginare non solo la collocazione negli spazi ma anche il rapporto delle singole opere tra di loro. Certo, vedo nelle foto il segno di getto nei disegni di Christian Niccoli, per altro qui esposti per la prima volta sotto forma di “appunti”, in cui l’artista nato nel 1976 a Bolzano e che vive a Berlino, noto per i suoi video e le sue videoinstallazioni, rielabora il proprio vissuto, sotto forma di autoritratti dalle caratteristiche surreali. Ci colpisce soprattutto uno dove una silhouette di un uomo nudo porta uno strano cappello rosso in testa, che copre completamente il volto e ha forme a punta che obbligano un distanziamento…
Già con l’opera plastica della polacca Monika Sosnowska ho le mie difficoltà a percepire bene l’impatto che vuole comunicare con la sua opera Irregular Room, composto da un tortuoso ambiente di pareti dipinte nel verde tipico delle architetture nello stile social-realista, essendo lei nata e vissuta dal 1977 a Varsavia. Ricordo una sua analoga installazione – definita da Rekade nei testi che accompagnano le immagini sul sito come “ambienti angoscianti e irrisolti” - alla Biennale Arte del 2007, dove nel padiglione del suo paese aveva inserito una struttura in cemento armato assolutamente sovradimensionata con lo scopo di urtare lo spettatore e stimolarlo a ripensare il rapporto tra architettura contemporanea e architettura degli anni trenta del Novecento, anno in cui quel Padiglione fu costruito nei Giardini di Venezia.
Ancor più difficile l’impresa di percezione online risulta con le sculture in lattice, paglia e metallo della tedesca Liesl Raff che vive a Vienna, per cui il testo che accompagna la foto ci dice che “appaiono come forti presenze nello spazio espositivo, quasi imponendosi al fruitore, ma offrendo anche una forma di riparo”. Possiamo soltanto immaginare, raffigurandoci ciò che viene scritto ancora nel testo, per dirci com’era nata questa idea, ossia nel corso di una visita dell’artista della casa-laboratorio a Città del Messico di Luis Barragán, uno dei maggiori architetti messicani del XX secolo: una sorta di soglia tra esterno e interno, come gli spazi di vita nei paesi caldi, un tetto per creare un dentro-fuori, riparato da sole e pioggia, per viverci. Qui, ci dicono, l’artista lo intende “come un ponte tra interno e esterno dell’essere umano”, un luogo di trasformazione emotiva, o meglio “un rifugio fatto con un tetto di lattice e foglie di palma inteso come luogo di cambiamento, di cura, di presa di coscienza”. Queste due opere piazzate nella sala al terzo piano si espandono poi come concetto nella saletta adiacente, dove alle pareti sono appesi i dipinti di Barbara Tavella, sicuramente intriganti anch’essi dato che sono presentati come “frutto di lunga elaborazione” in cui le pennellate di colore erano state continuamente sovrapposte una sopra l’altra, dando libero sfogo a continue differenti sensazioni in una sorta di “ri-sentimento”, dove ogni immagine sfugge, ecco che sul pavimento si crogiola il lungo serpente Corn Dolly di Liesl Raff, “un rotolo di paglia che rimanda alle figure realizzate con questo materiale in tutta Europa come simboli di fertilità dopo il raccolto”.
Quello che ci frustra di più è la visione degli artisti esposti al primo piano, articolandosi lo spazio qui – sempre secondo la nostra memoria - tra quello aperto del giroscale, una sala grande e due sale piccole inanellate tra di loro. Nell’ampio spazio aperto immaginiamo dunque l’opera semovente e sospesa di Raul Walch, classe 1980, che vive a Berlino che consta di diversi materiali e oggetti recuperati presso l’Ufficio oggetti smarriti. Leggo: “Questi oggetti, persi o abbandonati per le strade della città dalle diverse persone che la abitano o la visitano, si pongono come delle testimonianze di presenze talvolta di passaggio, ignote o esterne, e sono trasformati da Walch in una struttura che riflette il delicato e fragilissimo equilibrio della giustizia sociale.” Viene quasi voglia di costruirsi un mobile simile, à la Calder, che penzola nell’aria di una delle stanze in casa o sul balcone… Anche perché questo artista tedesco, nato a Francoforte, è tra i fondatori di un movimento chiamato “die Vielen” (i molti) che, accanto a pratiche artistiche e azioni in spazi pubblici e contesti sociali invita altri a prendere posizione contro “strategie di destra” per sostenere “la libertà dell’arte” – libera, appunto, come questi oggetti che fluttuano nel vuoto e al contempo pieno di leggerezza, gentilezza - coloratissimi e dalle tante forme diverse.
Sotto questa enorme scultura dissipata nel volume arioso, sulle pareti sono state giustapposte le stampe di volantini e immagini di Wolfgang Tillmans, artista tedesco vincitore del Turner Prize. L’artista – apprendiamo dalle righe apposte vicino alla piccola foto che ritrae una parete colma di scritte e manifesti colorati – ancor prima del referendum sulla Brexit del 2016 organizzò una campagna in favore dell’Unione Europea con manifesti realizzati a partire dalle sue inconfondibili immagini. L’anno successivo, in occasione delle elezioni federali in Germania, ripetè l’iniziativa per contrastare l’ascesa del partito populista tedesco Alternative für Deutschland (AfD), per poi tornare un’altra volta nel 2019 a sostegno dell’Ue in concomitanza delle elezioni europee. Per Ressentiment a Merano ha espresso queste riflessioni: “Ho pensato a lungo a cosa accade ad un’opera quando viene inserita in un contesto politico-attivista. All’inizio mi preoccupava l’idea di accostare una tematica pesante come quella della Brexit alle immagini di cieli e orizzonti che ho esposto l’inverno scorso al Museo Serralves di Porto, in quanto questa operazione avrebbe potuto limitare le loro differenti modalità di lettura. Tuttavia, considerando che questa serie era proprio relativa al tema del confine, ho pensato: non solo correre questo rischio è giusto, ma ne vale la pena.”
Cambio videata per guardare uno dei video postati e che presentano considerazioni di artisti esposti, e mi soffermo su quello di Riccardo Previdi, artista e architetto milanese di cui conosco il percorso artistico e che interpreta a suo modo il tema del risentimento, dove per l’intero progetto delle Parole del tempo vale la frase scelta di Malachy McCourt: “Il risentimento è come bere del veleno e attendere che l’altra persona muoia”. La cito perché si addice bene al tema affrontato da Previdi nella sua opera LaLaLaLaLaLa. Il testo dice che, qui, l’artista che ama guardare con occhio critico e ironico la realtà socio-politica attorno a sé, “analizza il concetto di appartenenza con la serie Tavoli, in cui bandiere di stati che sono - oppure erano - in conflitto vengono stampate sovrapposte. In questo modo ne vengono alterati i colori e il valore simbolico, rendendole un elemento puramente formale. Inoltre, il tavolo rimanda a un luogo di incontro, di dialogo e di negoziazione, che per risultare tale deve essere oggetto di una forma di “cura” costante e attenta, la stessa cura (sarebbe stata, correggo qui) richiesta dalle decorazioni floreali affidate – per quanto concerne le composizioni e la gestione quotidiana – alle due collaboratrici del Kunsthaus, addette all’accoglienza dei visitatori.” La foto proposta ci mostra i tre tavoli nei colori di bandiere illeggibili per la loro sovrapposizione ornati tutti e tre con vasi di fiori “congelati” nell’immagine con i loro fiori belli, vivi, e altrettanto colorati. Viene da pensare allora ad altre immagini di “situazioni congelate” che ho in mente, in tempi di terremoto o di tsunami, dove avevo visto – dopo la scossa o l’enorme ondata – tavoli imbanditi abbandonati come fossero sculture esposte all’interno di case vuote, di presenze umane.
La scritta murale a vernice spray LALALALALALA –spiega Riccardo Previdi – “si pone in modo drasticamente opposto, ricordando il gesto provocatorio di coloro che, non volendo ascoltare il proprio interlocutore, preferiscono coprire ciò che dice attraverso la ripetizione a voce alta di suoni senza senso”. Come il surplus di informazioni che attualmente ci sta invadendo da tutti i canali audio e video?
Bene, fin qui il mio focus era sui contenuti fruibili nonostante le frustrazioni di cui ho già detto, mi chiedo però come possa essere visitata da coloro che non conoscono la struttura architettonica, per non parlare di chi fa fatica a leggere un’opera d’arte anche dal vivo? Oppure, per tornare ai dipinti a più strati di Barbara Tavella: come immaginarsi le pennellate una sopra l’altra in una immagine luminosa che appiattisce tutto a una retina omogenea di pixel colorati? Ė come dire che conosco l’arte di Vincent van Gogh, quando non ho mai visto un suo quadro dal vero, in quanto anche le fotografie tolgono l’aura espressa da un’opera artistica, per non parlare delle sue deformazioni in punto di colore e di inquadratura nelle riproduzioni che ci sono tanto care sui libri di scuola. Chi insegna a leggere l’immagine a ragazzi e ragazze? A focalizzare la forma e le caratteristiche del segno, della pennellata, e il colore o la gradazione del colore naturale? Oggi, in un’era dove l’immagine campeggia e padroneggia ovunque, soprattutto nella sua essenza luminoso-pixelata, uno studio adatto a decifrare le tecniche e riconoscerne il potenziale latente – nel bene e nel male – dovrebbe essere obbligatorio sin dalle scuole di primo grado. Il linguaggio visivo, a mio avviso, va imparato come si impara a leggere e a scrivere per orientarsi nel nostro mondo sempre più online.
A maggior ragione guardando il “videogioco d’ arte” inventato da Hannes Egger, l’artista che cura la mediazione per Merano Arte e nei suoi work shop propone sempre percorsi assai originali e intriganti per il giovane pubblico. Ho provato a giocarci, con questo impianto molto semplice che ricorda SuperMario che saltella per avanzare, qui un omino che nel suo saltellare deve raccogliere monete (non so quale sia il premio finale, non essendo arrivata fino in fondo, premetto che non sono né fan né giocatrice abituale di videogiochi di nessun tipo) e lungo il percorso ci sono alcune “stazioni”, dove ci vengono presentate alcune delle opere esposte. Noi, che sappiamo di cosa si tratta, le guardiamo con interesse, ma – mi domando - chi è abituato a incontrare i più disparati scenari e/o bitmojis o meme riuscirà a decodificarne la differenza?
Dispiace davvero che il suo Antidoto pensato per studenti e studentesse delle scuole secondarie di I e II grado non possa arrivare a coloro a cui era destinato: prevede(va) tra la visita guidata un rituale e una auto-disamina a partire da un esercizio per percepire il proprio risentimento a fronte di indagine sulle forme nascoste di questo sentimento che caratterizzano il nostro presente, sul piano politico e personale. Il rituale doveva “guarire” - alla fine della visita - da tutte le negatività individuate.