La produzione di un'illusione
Philipp Klammsteiner è tante cose ma non è un graffitaro, questo lo chiarisce fin da subito. É un graphic designer, è un artista e in un certo modo è anche uno skater, o per lo meno non ha mai smesso di sentirsi parte di quel mondo - perché sì, quello dello skate è un mondo, una comunità, molto più interessante e complessa di quello che può sembrare a prima vista.
Per le sue opere tuttavia usa anche la bomboletta, come ha imparato a fare molti anni fa sulla strada; una passione, quella per fare le cose a mano, che gli è rimasta e che applica al suo lavoro di grafico e anche di artista.
I suoi lavori degli ultimi cinque anni ora sono esposti in una mostra alla Galleria Prisma di Bolzano, che è stata inaugurata il 6 maggio ed è intitolata "The Social Incident". Si tratta di una riflessione amara sull'universo dei social media, sul loro effetto sulle nostre vite, una riflessione condotta tramite stencil, collage e bomboletta, mescolando il linguaggio della street art a quello della pubblicità anni '60 e '70.
Salto.bz: I graffiti sono una forma di espressione con delle connotazioni abbastanza precise e che a parte poche eccezioni non è né molto accademica né molto istituzionalizzata. Cosa significa per te questo medium? Come mai integri questo linguaggio nelle tue opere?
Philipp Klammsteiner: Secondo me se vediamo i graffiti come “arte” che viene consumata illegalmente per strada allora sì, non è né molto accademica né molto istituzionalizzata. Ma la parola graffiti purtroppo soffre di questo cliché e qualsiasi cosa che venga fatta con una bomboletta diventa graffito. All’interno della scena dei graffiti c’è una grande differenza invece tra graffiti e street art - basti pensare per esempio a Banksy, che è uno dei più quotati artisti di street art contemporanei. Lui viene sempre visto dal pubblico come un graffitaro ma all’interno della scena dei graffiti non viene considerato per niente.
Incontrare il mondo dello skate per me ha significato trovare amici che come me non giudicano una persona per il colore della pelle o la lingua che parla...
Qui vorrei precisare che io vengo sì dalla scena dei graffiti ma oggi non mi vedo più come un graffitaro per il semplice rispetto che porto per quel mondo e per la consapevolezza che si tratta di due scene separate. A 13 anni ho preso in mano per la prima volta una bomboletta spray ma penso che oggi sia l’unico medium che leghi ancora le mie opere al mondo dei graffiti. Il linguaggio che uso nelle mie opere è legato più alla street art e alle tecniche come il collage e lo stencil. Uso questa tecnica semplicemente perché ci sono cresciuto e penso di padroneggiarla abbastanza bene da poterla usare nelle mie opere. In più penso che il collage e gli stencil siano molto forti come medium e funzionano bene per dare un messaggio all’osservatore.
Il mondo dello skate è molto legato alla street art e ai graffiti ed è una subcultura molto interessante; ho avuto modo di notare che la comunità che si forma ha dei valori molto positivi da un punto di vista umano: è una comunità aperta, accettante, integrante. Cosa ha significato per te da ragazzino incontrare questa realtà?
Incontrare il mondo dello skate per me ha significato trovare amici che come me non giudicano una persona per il colore della pelle o la lingua che parla. Nella piccola realtà di Bolzano i due mondi dello skate e dei graffiti erano molto legati e quindi anche le persone che formavano questa scena. Negli anni 90 c'era ancora tanta differenza tra le due culture linguistiche tedesca e italiana. C'era un “buco” tra i due gruppi linguistici che per motivi ideologici e politici era difficile saltare. A noi riusciva facilmente superarlo perché eravamo spinti dalla fame di conoscere e vivere queste sub-culture e ogni persona interessata a queste due scene era benvenuta. Secondo me queste sub-culture, come anche la scena musicale degli anni '90, portavano con se una grande energia di gruppo nel quale una persona si sentiva accettata e rispettata per quello che era o per come contribuiva alla scena.
Ho prodotto un'illusione, che promuove un mondo fittizio. Un po' come le pubblicità di quegli anni che con slogan e foto super esagerate ti promettevano il meglio del meglio
Perché hai deciso di accostare due elementi cronologicamente piuttosto distanti come i social media e la pubblicità anni 60/70?
Diciamo che è stato un casuale incrocio di diversi fattori a dare vita a questo linguaggio. Nel 2017 ho restaurato il mio atelier, rimuovendo il pavimento mi sono imbattuto in tutti questi giornali di moda degli anni '60 e '70 che erano pieni di pubblicità di quegli anni. Siccome era già da un po' di tempo che volevo fare dei lavori con un focus sui social media, questo "tesoro" è capitato proprio a pennello. Ho deciso di combinare le due cose creando così un linguaggio che con pubblicità di prodotti e articoli di giornale fasulli ti promette più “followers” e “likes”.
Ho prodotto un'illusione, che promuove un mondo fittizio. Un po' come le pubblicità di quegli anni che con slogan e foto super esagerate ti prometteva il meglio del meglio. Anche i social ci danno questa illusione di essere o vivere un altro io, affamati di followers e likes consumiamo questo prodotto chiamato social media che però ci fa diventare molto più asociali e ci spinge ad una forma di isolamento.
Che rapporto hai tu con i social media? Lavorando nella comunicazione sono credo uno strumento da cui almeno professionalmente non puoi prescindere.
Sono sempre stato scettico nei confronti dei social come per esempio Facebook, poi nel 2013 ho incominciato a usare Instagram. All’epoca era un'app con l’intento di dare spazio alle persone creative per promuovere i propri lavori. Quindi il mio approccio principale era di usare questo "tool" per pubblicizzare i miei lavori grafici e artistici. Col tempo, come succede spesso, il modo di usare quest'app è cambiato e si è rivelata come un media che spinge le persone a promuovere la propria superficialità. Promuovere il proprio "Io" con post e selfie scattati in qualsiasi situazione della giornata, così da nutrire il proprio ego con followers e likes. È qui che ho incominciato a distanziarmi e a osservare questi media con un occhio più critico, cercando di trovare attraverso l’arte un approccio alle persone, facendo loro notare cosa questi media stiano producendo in noi. Penso che i social siano come un programma televisivo al quale ognuno possa partecipare, il problema è che non c’è veramente un regista che valuti il contenuto di un post prima che venga messo in rete. Come diceva Andy Warhol “ Nel futuro ognuno sarà famoso per 15 min”. Probabilmente questa profezia si sta trasformando in realtà, però le conseguenze al momento non vengono veramente considerate.