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Il linguaggio del bonsai

Incontro con il maestro Othmar Auer che a Varna gestisce uno dei più importanti centri europei dedicati a questa antica arte giapponese.
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Foto: Salto.bz

salto.bz : Come ha incontrato il mondo dei bonsai?
Othmar Auer - Non ero giardiniere fin dall’inizio, ho cominciato un po’ più tardi. Quando stava per nascere il nostro primo figlio abbiamo pensato di piantare un albero. Ma siccome un albero poi è ‘difficile da spostare’, allora abbiamo deciso di seminare degli alberi per fare dei bonsai. Questo è stato l’inizio: mia moglie mi ha regalato un libro e…

Lei dunque ha iniziato come un appassionato ‘base’ e poi man mano è diventato il maestro che è oggi.
Sì, certo. 

Quanti anni fa è scoccata la prima scintilla di passione?
Sono passati 32 anni. Ovviamente prima era un hobby, poi gradualmente è diventato un secondo mestiere e 15 anni fa ho deciso di abbandonare la mia precedente strada professionale e di dedicarmi solo ai bonsai. 

Quali sono state le motivazioni della crescita esponenziale di questa passione?
Queste cose sono già nascoste dentro di noi e poi ci sono delle situazioni che le fanno uscire. Facendoci capire qual è la strada che dobbiamo seguire. 
In realtà solo i giapponesi fanno i bonsai, anche molti occidentali hanno questa sensibilità. Solo che non hanno il modo di lasciarla esprimere. È una questione di carattere. Uno ha un certo modo di fare e di vivere e ad un certo punto vede che il bonsai è proprio quella cosa che valorizza la meglio questa sensibilità. 

Secondo lei qual è il nocciolo artistico ed in qualche modo anche  spirituale dell’arte del bonsai?
Magari per un non appassionato il bonsai viene visto come se fosse l’uomo che gestisce e lavora la pianta. Però mano a mano che si va avanti si vede che anche il bonsai ha una grande influenza sulla persona che se ne occupa. Quindi la prima cosa che ho imparato è avere pazienza. Ho imparato che il bonsai è una sorta di maestro oche mi fa vedere le cose importanti nella vita. In giapponese c’è la parola Dō che significa “la strada da seguire”. Quindi come prima cosa occorre avere pazienza. Poi ci vuole capacità di raffinare le capacità sensoriali, perché la pianta è un essere vivente che non può parlare e quindi occorre essere in grado di capire i suo linguaggio. In realtà è quello che comunemente si chiama ‘pollice verde’. 
Poi ci vuole anche disciplina: se sto male o non ho voglia devo comunque andare a dare acqua alle piante. Non c’è altro modo, anche se mi viene la febbre. Un’altra cosa è l’umiltà: il giardiniere deve capire che ha a disposizione solo un certo numero di anni per seguire una pianta. E che dopo arriverà qualcun altro. Il bonsai è affidato solo per un certo periodo al giardiniere. 

C’è chi dice che fare bonsai vuol dire maltrattare le piante…
Non è così. Apparentemente può sembrare quando mettiamo i fili di metallo e potiamo. Ma se uno fa i bonsai come li concepisco io allora è la pianta che ti dice cosa vuole e cosa le puoi fare. Questo è il punto importante. Anche un giardiniere normale taglia l’erba del prato, pota le piante, eccetera. E poi magari coltiva l’insalata e se la mangia. La crescita e la vita delle piante viene condizionata da tante cose. Qui in montagna dalle slavine e dalle frane. Nella savana in Africa le chiome degli alberi magari vengono sagomate dalle giraffe che si mangiano foglie e rami.

In Alto Adige lei ha rapporti anche con il mondo dei giardinieri ‘tradizionali’?
Per poter svolgere oggi la mia attività qui a Varna ho dovuto frequentare la scuola a Laimburg dove mi sono diplomato. Il mestiere di bonsaista infatti in Italia non esiste. Curo anche dei giardini ‘normali’ e non giapponesi. Anche perché secondo me non ci possono essere al di fuori del Giappone, in quanto necessitano anche architetture e la giusta filosofia. Uno pensa che se mette in giardino del bambù e un acero allora ha il giardino giapponese. Non è così. A parte il fatto che ne esistono diverse tipologie. 

Lei è stato diverse volte in Giappone?
Sì, ho fatto il mio tirocinio con un maestro che ho incontrato prima in Italia e che poi ho seguito in Giappone. Per riversi anni sono andato là d’inverno fermandomi molte settimane. Dormivo a casa del maestro, lavoravo con le sue piante e apprendevo il fascino e il modo di vivere del bonsaista. 

In Alto Adige ci sono molti ‘seri’ appassionati al di là di coloro che comprano spesso con scarsa fortuna un finto bonsai al supermercato?
No, sono pochi. Quello dei bonsai è un mercato molto piccolo. Qui a Bressanone c’è un club molto attivo con una cinquantina di soci, che però vengono anche dalla Val Venosta, dall’Austria e un po’ dappertutto. 

Nonostante questo piccolissimo mercato lei comunque riesce a fare questo mestiere e mantenere la sua famiglia?
Mi occupo di tutto quello che gira intorno al mondo dei bonsai e quindi anche della didattica. Poi curo giardini per una serie di clienti. I miei clienti naturalmente arrivano da tutta Europa. Quello che arriva da più lontano viene due tre volte all’anno viaggiando per 12/13 ore e portandosi dietro le sue piante che poi lavoriamo insieme. 

In Italia ci sono centri bonsai?
Sì ma non li conosco perché esco poco di qui. Ce n’è uno molto grande a Milano, ma di solito sono giardinerie molto piccole oppure bonsaisti che in realtà fanno anche altri lavori. Immergersi in questo mestiere e decidere di fare solo questo infatti è abbastanza difficile. Quando ho costruito la mia giardineria qui a Varna ho pensato che se l’avessi fatto solo per l’Alto Adige avrei chiuso nel giro di due settimane. Ma avevo già clienti in giro per l’Europa. A molti clienti piace venire qui a vedere come lavoro, perché ognuno lavora in modo diverso. 

Come si impara?
Lo ripeto: ci vuole molta pazienza, ci vogliono 10/20 anni per progredire. In Giappone si dice che prima bisogna guardare e copiare il maestro così si apprende la manualità. Dopo di che si capisce il perché vengono fatte certe cose per arrivare alla terza fase in cui si diventa davvero in grado di fare individualmente. 

Un’ultima cosa: nella sua collezione di bonsai ci sono molte conifere e alcune di esse ricordano la fisionomia di piante che si incontrano abbastanza in Alto Adige, dove il bosco lascia spazio agli alpeggi. 
Ci sono vari tipi di piante. Ci sono quelle fatte da semi e talea, quelle da vivaio e poi ci sono le piante cresciute in natura. Tante volte nelle malghe ci sono piante che crescono e che poi le mucche mangiano, restando piccole. Dopo qualche anno quando si stanno ingrossando il contadino o chi gestisce l’alpeggio le taglia. Se si hanno le conoscenze giuste allora si può andare sul posto in quel momento, tirare su la pianta e portarsela via. Il contadino è contento e anche colui che la raccoglie. Poi ho anche piante comprate in Giappone e che ho considerato degne per essere lavorate con un buon risultato. 

L’intervista è conclusa: c’è qualcosa di importante che non le ho chiesto?
Sì, ha tempo di restare con me fino a sabato che le racconto alcune cose? (sorride)