Egeon e l'importanza di uscire dal nido
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In questo secondo Gespräch di novembre esploreremo l'universo creativo di Egeon, l’artista altoatesino conosciuto per i suoi murales che trasformano gli ambienti urbani della provincia trasportandoli nel panorama dell’arte contemporanea europea. Il fil rouge della sua arte è la pittura, in particolare il muralismo in esterno e la tecnica dell’acquarello. Pittore di formazione, Egeon ha ultimamente declinato la sua ricerca anche ad altre forme espressive sperimentando con la scultura e facendo ricerca in ambito micologico rendendo più sfaccettata la sua produzione. Noi di SALTO lo abbiamo intervistato sul suo percorso artistico partendo dalle sue opere più recenti, cercando di scoprire le ispirazioni dietro la sua arte, analizzando le tecniche che utilizza per portare i suoi murales alla vita e riflettendo sull'impatto profondo che l’arte ha sulla società e sul territorio.
SALTO: Partiamo dalla sua più recente esposizione che si è tenuta a Roma dal titolo Smultronställe, di cosa si tratta?
È un progetto che nasce in collaborazione con l’associazione Tramandars e la FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura, N.d.R.) e mi ha permesso di creare un’esposizione nell’Orto Botanico di Roma. Da qui è nato il progetto Smultronställe, dallo svedese “prato di fragole selvatiche”, è una di quelle parole intraducibili come potrebbe essere per noi Heimat, sta a significare un luogo idilliaco, dove ritrovare sentimenti di luce e serenità. È un luogo del passato, ognuno ha il suo Smultronställe, può essere un punto da cui vedere il tramonto come l’angolo di un teatro, nel mio caso è effettivamente un prato dove andavo con i miei nonni a raccogliere funghi e fragole.
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Uno dei temi di questa esposizione è la memoria. Che ruolo ha nella mostra?
La mostra trae ispirazione appunto da un prato nei miei ricordi d'infanzia a Pietralba, dove trascorrevo del tempo con i nonni, conferendo così alla memoria un significato biografico. Questo tema è poi al centro dell'opera principale dell'esposizione: sette Bio-Hard Disk, sculture minimaliste realizzate in substrato di micelio. Questi hard disk sono copie di un mio dispositivo che conteneva ricordi d'infanzia, gite scolastiche, feste e viaggi.
L'originale ha smesso di funzionare, l’ho scoperto portandolo in assistenza. Mi affascinava però l'idea di dare nuova vita a quell'oggetto il cui scopo è conservare i ricordi, come se quei momenti potessero durare per l'eternità. Per accentuare questo concetto ho deciso di inoculare all'interno di questi hard disk il fungo Ganoderma, noto come il fungo dell'immortalità nella cultura giapponese e cinese. Questo gesto amplifica l'idea di un tempo senza fine, creando un collegamento tra la fine fisica dell’hard disk e la nascita del fungo “immortale” al suo interno.
Il ruolo che ha assunto la natura nella sua arte è diventato predominante, come mai c’è stato questo cambiamento?
Penso che, come per molte persone, il fatto che la pandemia ci abbia costretti in casa abbia risvegliato questa esigenza di contatto con la natura. Dall’adolescenza in poi ho accantonato la dimensione naturale, però fa parte della mia infanzia, del mio rapporto con la mia famiglia. Diciamo che la natura, quindi, è stata una riscoperta. Anche possibilità di esporre nell’Orto botanico a Roma mi ha portato a riflettere su questo tema e a comprendere, attraverso la ricerca, che la natura non è né buona e né cattiva, semplicemente è.
Recentemente ha scelto anche contesti naturali in cui inserire le sue opere, penso all’installazione che ha realizzato in Val Badia. Come è stato lavorare in un contesto diverso rispetto a quello urbano tipico dei murales?
Quest’anno ho partecipato a SMACH, la mostra biennale all'aria aperta che rappresenta la combinazione di “arte e natura” e si tiene in Val Badia. Lì ho lavorato con delle pietre bianche di dolomia del territorio posizionandole a terra per formare un disegno, ossia l’impronta sporale di un fungo. Anche in questo caso ho vissuto il processo artistico similmente a quello su muro. L’approccio è abbastanza simile, sono opere in ogni caso grandi e che prevedono un lavoro in esterno quindi considerazioni sul meteo. Il vantaggio è che, se piove, le pietre non si sciolgono mentre il colore sì. Una differenza sostanziale è stata quella del pubblico: i fruitori principali in questo caso non erano le persone come accade con i murales, ma erano le mucche, è con loro che l’opera ha avuto il dialogo più forte, anche solo banalmente perché gli stavo coprendo il pranzo con le pietre.
Nella sua produzione artistica recente c'è un forte legame con la montagna e quindi anche con il territorio, quanto è importante per lei la sua provenienza? La sua “altoatesinità”?
Ho sempre ammirato gli artisti che riuscivano a fare delle loro origini qualcosa che si rispecchiasse nella pratica artistica. Invece ho guardato con sospetto chi si appropria di metodi che non gli appartengono veramente, per fare un esempio semplice non apprezzo chi fa calligrafia giapponese non avendo origini giapponesi. Per quanto riguarda il paesaggio umano non sento di avere particolari legami con le tradizioni locali, che siano altoatesine o settentrionali in generale. Però ho sentito di avere un legame con un determinato tipo di paesaggio, quindi con il bosco e la montagna, questo mi ha permesso di dare un senso a quello che faccio ed ha ispirato la mia ricerca.
Parlando un po’ più in generale del suo percorso come si è approcciato all’arte?
Come chiunque, disegnando da bambino. Tutti disegniamo da bambini, io semplicemente non ho mai smesso.
In passato ha più volte confidato di prendere ispirazione dalle persone, considerando che sono il contesto in cui le tue opere sono inserite. Trova ancora ispirazione nelle persone?
Avere un approccio creativo al proprio lavoro ti porta a trovare ispirazione in qualunque cosa, anche nella conversazione al bar. Devo dire che la mia ispirazione è ancora molto legata alle persone, anche perché l’arte è effettivamente destinata alla nostra specie.
Quali sono le sue influenze, in particolare artistiche?
Adesso più che all’arte guardo alla scienza, è lì che trovo più stimoli. Tra le ultime cose che ho letto ci sono Suzanne Simard, Anna Tsing, Merlin Sheldrake. Questi scienziati ed antropologi sono stati molto stimolanti. Visivamente sono tante le ispirazioni, devo dire che sono più le opere che gli artisti a stimolarmi, capita anche che siano opere che non mi piacciono ma che comunque mi spingono ad una riflessione.
Come vive il processo creativo?
Vivo il processo creativo come un lavoro. La parte ideativa è legata a delle intuizioni che mi vengono proposte e che poi colgo, non è un processo sofferto. Mi chiedono se mi capita di avere vuoti creativi ma devo dire che non mi succede. Anche l’approccio scientifico alla ricerca mi è utile in questo senso perché mi ha permesso di scavare affondo, una volta che scopri una cosa non finisce lì ma da quella scoperta ne partono altre, questo, secondo me, accomuna arte e scienza.
La parte esecutiva del processo creativo cambia anche in base al mezzo. Nei murales che realizzo lascio molto correre il colore e questo modo di utilizzare l’acquarello mi lascia il controllo fino ad un certo punto, non posso prevedere come verrà la stesura del colore ed il risultato finale. Dall’altro lato questo lasciar correre il colore è anche un esercizio nel lasciare andare, mi aiuta molto. Un’altra emozione che sento di provare nell’esecuzione dei miei pezzi è la fretta, perché voglio vedere i murales finiti. Un esercizio che vorrei imparare a fare è godermi il processo creativo sul lato pratico.
La sua arte è apprezzata da molti, a prescindere dall’età ma anche dallo stile di vita, dal contadino al cittadino. È una cosa a cui pensa nel momento creativo o si è “ritrovato” questo pubblico e questo apprezzamento?
Lavorando in strada raccolgo impressioni molto diverse, quindi so che la mia ricerca non piace a tutti. In realtà che alla gente piaccia o meno quello che faccio non mi interessa, l’importante è che le persone non ne siano indifferenti. Preferisco che un mio pezzo ti faccia schifo rispetto a che non ti dica nulla. L’importante è che stimoli un pensiero, qualunque esso sia.
Cosa ne pensa del panorama artistico altoatesino?
Ci sono artisti che fanno cose molto belle ed interessanti. Ad esempio, trovo molto interessante la tecnica scultorea in Val Gardena e come è stata declinata nella contemporaneità dagli artisti locali, nonostante sia lontana da quello di cui mi occupo.
Pensa che l’Alto Adige sia una terra fertile per l’arte?
Secondo me è una realtà che dà moltissime possibilità, ci sono fondi per realizzare tanti progetti. L’appunto che mi viene da fare è che si tende a guardare un po’ verso sé stessi. Ci sono esempi positivi in Provincia come il Festival Transart, il Jazz Festival o Museion, dove c’è uno sguardo all’esterno e ci sono tante collaborazioni. Però in generale gli artisti dovrebbero guardare più a ciò che c’è fuori dal nido, perché nel nido c’è già tutto. È sempre facile dare la colpa agli altri, forse è più necessaria l’autocritica in questo caso.
Quali sono i suoi obiettivi artistici a lungo termine?
Mi piacerebbe concentrarmi su progetti legati all'insegnamento, collaborare con le comunità e utilizzare il processo creativo come una forma mentale che fornisca strumenti per comprendere sé stessi e il mondo circostante. Vorrei condividere l'approccio artistico senza l'aspettativa di diventare artisti professionisti, perché l'arte può essere trovata in ogni cosa; è il modo in cui si fanno le cose che le trasforma in arte o meno. Dal mio punto di vista artistico e umano, qualsiasi sforzo verso la consapevolezza e tutto ciò che si muove in questa direzione è arte.