“Sempre più pazienti e pochi medici”
La “tirata d’orecchi” è stata netta. Il sottosegretario alla Salute Armando Bartolazzi (Movimento 5 stelle), durante una recente audizione della commissione Affari Sociali della Camera, aveva detto: “Bisogna prendere atto che lo sviluppo delle reti locali di cure palliative e l’identificazione dei requisiti minimi per l’accreditamento e l’adozione di modelli organizzativi uniformi, sono obiettivi non ancora raggiunti da tutte le Regioni dal momento che le Regioni Abruzzo, Molise, la Provincia autonoma di Bolzano e Valle d’Aosta non hanno ancora recepito l’intesa del 25 luglio 2012”. Un documento, quest’ultimo, sottoscritto da tutte le Regioni e le Province autonome, che rappresenta il passo più importante dopo la legge 38 in materia di cure palliative e terapia del dolore, e fissa i criteri perché venga assicurata una rete assistenziale funzionante e rispondente alle esigenze dei pazienti.
Ma non tutti applicano in pieno la legge, ha in sostanza certificato il rappresentante del governo Conte annunciando che a breve sarà consegnato alle Camere lo specifico Rapporto al Parlamento con i dati ufficiali relativi anche alle diverse realtà territoriali. Massimo Bernardo, responsabile dell’hospice all’ospedale di Bolzano e consulente scientifico dell’associazione “Il Papavero der Mohn” a sostegno delle cure palliative, chiarisce che l’inottemperanza della Provincia denunciata da Bartolazzi non equivale a dire che in Alto Adige i pazienti non siano seguiti a dovere.
salto.bz: Dott. Bernardo, si parla costantemente di eccellenza per quel che riguarda le cure palliative, in particolare a Bolzano, e poi il governo richiama all’ordine la Provincia?
Massimo Bernardo: Parto da una premessa: esistono delle normative nazionali che definiscono come deve essere organizzata una rete di cure palliative. È fatta di alcuni nodi importanti che corrispondono alle strutture come la nostra, gli hospice, all’ospedale, dove ci sono molte delle persone che hanno bisogno di questo tipo di cure, e al domicilio dei pazienti. Chi si occupa di cure palliative deve muoversi attraverso questi nodi per portare questo servizio nel luogo in cui la persona si trova. Nel 2010 è entrata in vigore la legge n.38 e negli anni successivi, 2012 e 2014, sono stati emanati dei decreti attuativi che delineano come deve essere di fatto predisposta questa rete e come deve essere gestita, e quali obblighi hanno in questo senso le Regioni e le Province autonome. Molte Regioni hanno recepito queste normative, hanno deliberato a loro volta e organizzato reti che funzionano bene. Alcune Regioni sono avanti in questo senso, penso all’Emilia Romagna, al Piemonte, al Veneto, alla Toscana, e alla Lombardia; altre hanno magari recepito queste normative ma ciò non vuol dire che poi le abbiano attuate. Noi come Provincia di Bolzano non l’abbiamo recepita e agli occhi del governo siamo un territorio inadempiente.
E perché non è stata recepita?
Questo andrebbe chiesto agli amministratori provinciali, vero è che nel 2015 è stata approvata una delibera che recepisce il dettato della legge 38 e stabilisce che tutti i comprensori si debbano attivare per mettere in piedi la rete delle cure palliative. Ma un conto è fare delle belle norme, un altro è applicarle nella vita pratica dove ci si scontra con la mancanza di risorse e con i problemi organizzativi.
Dicevamo dell’eccellenza bolzanina.
Da un lato è vero che facciamo ancora fatica ad applicare questa normativa, dall’altra non è che nel frattempo ce ne stiamo con le mani in mano, i pazienti non vengono abbandonati, questo deve essere chiaro. A Bolzano soprattutto abbiamo fatto e stiamo facendo un lavoro eccellente, abbiamo anche sviluppato un servizio di ambulatorio e di consulenza all’interno dell’ospedale che è un modello per il resto del Paese, anche noi abbiamo le nostre punte di diamante. Però in altri settori siamo più deficitari.
Un conto è fare delle belle norme, un altro è applicarle nella vita pratica dove ci si scontra con la mancanza di risorse e con i problemi organizzativi
Parliamo solo della mancanza dei medici o c’è dell’altro?
Il problema è quello con cui si scontra tutta l’Italia e cioè riuscire a reperire specialisti nel settore delle cure palliative, perché siamo pochi rispetto alla necessità dei pazienti. La nostra è una specialità medica giovane e si fa fatica a trovare personale che abbia le competenze necessarie per lavorare in quest’ambito, senza contare la carenza generale di medici, che non è un problema solo italiano ma anche di gran parte dei paesi europei, in questo momento. Cominciamo a ragionare sul numero crescente di pazienti che hanno bisogno di queste cure e di conseguenza sulle risorse che servono per poter rispondere alle richieste.
E la Provincia come si sta muovendo?
A luglio è passata una delibera che prevede la presenza di almeno un medico dedicato alle cure palliative in ogni comprensorio, ma ci sono i tempi tecnici con cui fare i conti: deve partire il concorso e occorre trovare le persone, non è tutto semplice e immediato. Ora si parla di realizzare un complesso anche per i bambini. L’appello è quello di non farsi trovare impreparati. Sicuramente il nostro è un territorio in sofferenza, ma passi in avanti se ne stanno facendo.
A cosa si riferisce?
L’ultima novità sono queste aggregazioni funzionali territoriali (Aft) per coinvolgere di più i medici di famiglia che cercheranno di dare maggiore copertura ai loro pazienti, almeno nella fascia oraria 8-20, nei giorni feriali.
In che misura è importante il ruolo del medico di famiglia nell’ambito delle cure palliative?
È centrale, perché spesso i pazienti potrebbero essere gestiti dai medici di medicina generale, per questo anche su di loro occorrerà investire, e tanto. Il medico di famiglia del resto è una figura fondamentale nella gestione dei pazienti che richiedono le cure palliative e che sono molto numerosi. L’Organizzazione mondiale della sanità stima che la cifra oscilli fra i 3mila e gli 8mila pazienti all’anno. La popolazione invecchia, le malattie croniche aumentano, ed è inevitabile che ci sia un incremento del numero di persone bisognose di questo tipo di cure.
Molto è affidato alla buona volontà del personale che nei propri ritagli di tempo si occupa anche di questi pazienti. Ma lei si immagina qualsiasi altra specializzazione della medicina gestita in base alla “buona volontà”?
Quali sono le aree più carenti sul territorio?
La zona di Brunico e quella di Bressanone, dove non esiste nessuna struttura come la nostra, l’hospice, anche se ce ne sarebbe un gran bisogno. A Bolzano siamo in 3, due nuovi medici specialisti sono stati appena assunti a Merano, a Bressanone c’è una dottoressa che si occupa parzialmente di cure palliative, Brunico è in forte difficoltà. Molto è affidato alla buona volontà del personale che nei propri ritagli di tempo si occupa anche di questi pazienti. Ma lei si immagina qualsiasi altra specializzazione della medicina gestita in base alla “buona volontà”?
Allora in fondo la reprimenda del governo è stata opportuna.
Occorre struttura. Questo richiamo del sottosegretario alla Salute può indurci a fare una riflessione sul futuro, perché è chiaro, nonché ineluttabile, che se le persone non trovano risposte vanno in pronto soccorso, e se vogliamo fare in modo che vengano assistite a domicilio, come del resto desiderano, dobbiamo mettere a disposizione dell’assistenza domiciliare maggiori risorse. Di fronte a una malattia che può essere trattata indifferentemente in ospedale o a domicilio, nessun paziente sceglie di venire in ospedale. Optano per quest’ultima soluzione coloro i quali di norma vivono in un ambiente familiare poco idoneo oppure hanno una situazione troppo complessa dal punto di vista clinico, ma è per questo che ci sono le strutture come la nostra. Si tratta di attuare un risparmio di risorse economiche, perché ovviamente il costo di una giornata di assistenza domiciliare è inferiore rispetto a quella di una giornata di degenza in ospedale. Ciò andrebbe a vantaggio di tutti, sia della struttura pubblica che poi viene finanziata con le nostre tasse, sia dei pazienti che preferiscono essere assistiti a casa.
Offrire cure palliative vuol dire lavorare per garantire alle persone una migliore qualità della vita e questo ha senso farlo in una fase precoce della malattia, non alla fine
Molti associano le cure palliative alla fine della vita.
Non è più così, questo è un vecchio modo di vedere la questione. Offrire cure palliative vuol dire lavorare per garantire alle persone una migliore qualità della vita e questo ha senso farlo in una fase precoce della malattia, non alla fine. Le cure palliative sono per le patologie inguaribili che oggi rappresentano più del 75% delle malattie che gestiamo. Non sono solo malattie oncologiche, ma cardiologiche, neurologiche, eccetera, la lista di pazienti che soffrono, sia fisicamente sia psicologicamente, è molto lunga.
Cosa si aspetta dal prossimo esecutivo provinciale?
Che venga sviluppata più sensibilità nei confronti della malattia cronica inguaribile, e che si mettano a disposizione tutte le competenze che occorrono per affrontare in maniera adeguata i bisogni dei pazienti. In sostanza: la rete c’è ma ha qualche buco, l’obiettivo è arrivare a portare questo tipo di assistenza ovunque, da Malles a San Candido, fino a Salorno.