Culture | Il libro

Don Milani, ribelle ubbidientissimo

Lo scrittore e docente Eraldo Affinati ha presentato in Alto Adige il suo nuovo volume, dedicato alla figura del Priore di Barbiana.

La cosa buona degli anniversari è che ci costringono a rivisitare alcune vicende del nostro passato, illuminando figure di spicco che – altrimenti – verrebbero disgraziatamente dimenticate o, in una variante apparentemente più ottimistica, rimarrebbero fraintese e non valutate per l’importanza che hanno avuto.

L'anno prossimo ricorrerà il cinquantenario della morte di Don Lorenzo Milani (1923-1967), il Priore di Barbiana (minuscolo borgo sulle colline del Mugello) noto per aver praticato una rivoluzionaria concezione della scuola. Non è un caso, perciò, che stiano di recente apparendo pubblicazioni a lui dedicate, come il libro dello scrittore Eraldo Affinati, la scorsa settimana protagonista grazie a una serie di incontri avvenuti in provincia (questo articolo si riferisce alla presentazione di mercoledì scorso, 9 marzo, alla Biblioteca Civica di Bolzano).  

Affinati, introdotto e moderato per l’occasione da Giovanni Accardo, ha tenuto un’appassionata lezione, illustrando al numeroso pubblico la genesi del suo nuovo volume e spiegando perché abbia sentito il bisogno di intrecciare alla ricostruzione della personalità di Don Milani alcuni ricordi autobiografici, secondo lo stile peculiare dell’autore di Campo del sangue, La città dei ragazzi e Peregrin d’amore.

L’appuntamento con Don Milani è qualcosa che ho cominciato ad attendere stando in aula, avvistandolo negli occhi dei ragazzi di oggi e provando a intercettare i loro bisogni. C’è però un motivo ancora più profondo. Anch’io – come i ragazzi di Barbiana – sono figlio di genitori che non mi hanno fornito in dote una cultura della quale avrei potuto avvalermi senza fatica per farmi largo nel mondo. Anch’io non ho avuto in dote il privilegio della lingua e il mio percorso di vita è stato così contraddistinto dal tentativo ostinato di arrivare a padroneggiare le parole, secondo l’insegnamento fondamentale che il Priore trasmetteva ai suoi allievi”.

Ma chi era Don Milani? Perché la sua opera suscitò tanto scalpore? “Quando a Don Milani – ricorda Affinati – veniva posta la domanda su cosa bisognasse fare a scuola, egli correggeva immediatamente quel verbo (fare) rispondendo: la domanda giusta è cosa bisogna essere a scuola. Ciò che conta è la capacità di intessere con gli allievi un rapporto di autenticità, basato sulla qualità delle relazioni umane”. Notoriamente, nella scuola di Barbiana l’orario scolastico durava dalle otto del mattino fino alla sera, non c’erano mai vacanze, non esistevano voti e il processo di apprendimento fluiva orizzontalmente, ossia prevedendo la possibilità che gli allievi più anziani ed esperti si prendessero cura (non a caso: I care, rovescio del fascista me ne frego, era il motto di Don Milani) di quelli più giovani.

Nonostante fosse il figlio di una ricca famiglia toscana, Don Milani sentì precocemente la vocazione ad occuparsi degli ultimi, di chi cioè non aveva avuto le sue stesse possibilità, risolvendo il senso della propria missione pastorale in un’opera di intensa e totalizzante pedagogia. “Per insegnare occorre ferirsi”, ha sintetizzato Affinati, alludendo al gesto di una messa in gioco radicale, spinto addirittura fino a trasformare il suo stesso letto di morte (precocemente sopraggiunta in seguito a una malattia incurabile) in una straordinaria occasione di apprendimento. In ciò trova anche espressione il progetto di un’umanità integrale, inconciliabile con la distinzione tra azione e pensiero ovunque imperante, e perciò così difficile da interpretare oltre i pochi esempi eccezionali mediante i quali si è sempre manifestato (come del resto imparò a sue spese anche Alexander Langer, frequentatore di Don Milani durante i suoi anni universitari trascorsi a Firenze e traduttore della celebre Lettera a una professoressa).

Affinati ha poi cercato di correggere la percezione banalmente “ribellistica” di Don Milani, ricamata frettolosamente al margine dei suoi acuti contrasti con l’establishment ecclesiastico. “Il suo egualitarismo non è assimilabile a quello poi sfociato in alcune idee del Sessantotto. Don Milani non era amico del sei politico. Si tratta piuttosto di un radicalismo evangelico che lo assomiglia alla figura di un ribelle ubbidientissimo, e questo si può leggere anche nel suo rapporto di affinità e divergenza con alcune posizioni del Partito Comunista di allora”. A questo proposito è stata citata la famosa Lettera a Pipetta, un giovane comunista di Calenzano: “Hai ragione, sì, hai ragione, tra te e i ricchi sarai sempre te povero a aver ragione. Anche quando avrai il torto di impugnare le armi ti darò ragione. Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso”.

Alla fine è rimasto spazio per illustrare le finalità della scuola Penny Wilton – “Mi piacerebbe che qualche cellula del mio progetto nascesse anche a Bolzano…” – e i meriti letterari, sinora sottovalutati o comunque passati in secondo piano, di Don Milani: “È stato uno scrittore eccellente, particolarmente per quanto riguarda il genere epistolare, che lo pone in una relazione peculiare con i grandi della nostra tradizione, come Francesco Petrarca, Ugo Foscolo… e per questo sono particolarmente lieto di annunciare che l’anno prossimo è prevista da Mondadori l’uscita di un Meridiano con i suoi scritti principali”.