Rabbia
Da quando milito in ambito femminista, regolarmente vengo giudicata per la rabbia che esprimo. Per alcunə troppo evidente e da mitigare per non urtare le sensibilità altrui. Per altrə troppo mite e da esprimere con meno diplomazia e più aggressività. Insomma, difficile essere all’altezza delle aspettative di chi mi circonda. Menomale che non sento questo bisogno!
Sento invece la forte necessità di riconoscere questa rabbia e di usarla come motore per affrontare ciò che la causa. Mi arrabbio per le ingiustizie che mi circondano in una società con due pesi e due misure: dover lavorare di più per guadagnare di meno rispetto ai miei coetanei di genere maschile. Essere limitata nella mia libertà personale, giudicata per come mi vesto/pongo/vivo. Sentirmi ridotta al mio ruolo di madre o moglie. Vedere come mia figlia ora subisce le stesse prevaricazioni e violenze verbali che conosco bene anch’io fin dall’adolescenza. E non sia mai che adesso un maschietto si senta imbavagliato per non poter esprimere il suo apprezzamento non richiesto come meglio crede. Ripensandoci, sono proprio queste forme di paternalismo, prevaricazione e machismo che più mi fanno arrabbiare. Anche perché so bene che sono queste espressioni a creare il clima tanto tollerante rispetto alla violenza domestica e infine ai femminicidi. 125 solo negli ultimi 12 mesi. 125 sorelle uccise per mano di un uomo, quasi tutte per mano di un famigliare maschile. Questa la parte visibile, perché l’enorme sommerso delle quotidiane violenze domestiche resta invisibile e sconosciuto, anche quando si consuma in una piazza pubblica con tanto di spettatori come nel caso recente a Bolzano. Questo più che arrabbiare mi fa proprio infuriare… come chi poi cavalca l’onda della famiglia tradizionale nella campagna elettorale…
Ma mi sono persa… stavamo parlando della rabbia. Quell’emozione che per migliaia d’anni andava repressa in tutti i modi. Basti pensare che ancora 50 anni fa, le donne che la esprimevano potevano semplicemente essere rinchiuse in un manicomio da un parente di genere maschile. Non c’è da meravigliarsi che tuttora venga vista con sospetto e giudicata come negativa, quando invece semplicemente è un motore, un catalizzatore. Ed incanalata con nozione di causa uno strumento potentissimo a portata di mano. Vi segnalo „Rage Becomes Her: The Power of Women’s Anger“ di Soraya Chemaly per eventuali approfondimenti.
L'invito a non prendercela che ci viene trasmesso fin dalla culla, è un invito a rinunciare all'azione. Mentre l'emozione della rabbia va a confermare lo stereotipo del genere maschile, è invece in chiara contrapposizione per il genere femminile. Dalle donne ci si aspetta un sorriso e arrendevolezza, non certo una concreta espressione di rabbia. Appunto, due pesi, due misure. Salvo poi puntare il dito, quello sempre: le donne non sono abbastanza arrabbiate per prendere in mano il cambiamento che chiedono. Oppure, quando lo fanno, non rispettano il codice comportamentale previsto per loro e quindi come possono aspettarsi di essere prese sul serio?
Secoli di socializzazione in una cultura patriarcale ci hanno insegnato a temere la rabbia, a tenerla dentro, al massimo ad autodistruggerci. Ma la rabbia c'è, in ognuna di noi. E possiamo usarla e trasformarla nella forza necessaria per il cambiamento. Possiamo uscire dalla difensiva e fare leva sulla nostra rabbia per ribaltare un sistema che nostro non è, che non ci rappresenta, che ci opprime, che ci nega, che ci uccide. Riconoscere la rabbia che abbiamo dentro, accettarla, analizzarla, indirizzarla... sono azioni politiche di grande forza. È femminismo. E di questo c’è un grande bisogno!