Kurt Lanthaler e la poesia del delta
Dove il Grande Fiume non c’è più, là c’è il delta. È la terra dell’acqua.
Si comincia con un andirivieni di pronomi, dalla prima alla terza persona e ritorno, come acqua che si mescola alla foce del fiume, tanto che devi metterci dentro un dito e assaggiarla, per capire se è salata o no, se stai pescando nel mare o sei sempre nel fiume, cioè al confine dei due, che poi il confine, essendo liquido, neppure riesci a dire dov’è. Terra sommersa o acqua interrata: il delta, per l’appunto.
Kurt Lanthaler non è comunque solo scrittore “di confine” – verità spesso scadente a dato di banale provenienza geografica, sfruttandone i più vieti cliché – ma anche e soprattutto di “sconfinamenti”. Il suo libro è per questo una vera sorpresa. Sorprende, in primo luogo, che un sudtirolese residente tra Berlino e Zurigo – e che per scrivere usa documentarsi soprattutto leggendo o navigando in internet – si sia potuto calare in modo così prensile in un microcosmo per lui remoto, ancorché “astrattamente” o “vagamente” poetico. Infatti la poesia sgorga qui proprio dall’esattezza descrittiva dei luoghi e dalle azioni dei suoi strampalati personaggi (potremmo definirli “lunatici”, riecheggiando il titolo del libro di Ermanno Cavazzoni, al quale Il delta risulta del resto imparentato, così come un suo lontano cugino è Verso la foce di Gianni Celati). Tutto inventato e quindi più vero del vero.
Stefano Zangrando, Kurt Lanthaler e Giovanni Accardo durante la presentazione de "Il delta", presso la sede dell'Upad di Bolzano
È una narrazione che procede a strappi, quella de Il delta. O forse, più esattamente, per successivi slittamenti, divagazioni picaresche e sbandamenti che, mentre ci fanno allontanare dal delta (ed è il protagonista a volerlo fare), al delta invariabilmente riportano (sempre per volontà del protagonista). Piccole storie giustapposte, perle di una collana che ha un inizio redatto in forma di ritorno, e una fine che potrebbe benissimo rappresentare un nuovo inizio. Il sedicente “Conte” Fedele Mamai, trovatello cullato tra i silenzi di chi l’ha involontariamente salvato e poi allevato su una chiatta, per così dire nato al mondo all’interno di un punto di vista già mobile, è l’anti-eroe che unisce e disperde i frammenti con i quali progressivamente svela la sua esistenza di contrabbando, in un flusso di coscienza letteralmente fluviale. È la stessa scrittura, mentre parla del fiume e sciaborda le sue vicende, a fare allora delle pagine un delta: “Dopo seicentocinquanta chilometri attraverso una buona dozzina di province, quindi lungo tutta la parte superiore dell’Italia, il Po ha raccolto praticamente tutto quel che c’è da raccogliere, regali e regalini dalle montagne di mezza Italia, dalle colline e dagli altopiani, acque e scoli e sedimenti e divani, a volte glieli s’impone, a volte è lui a portarseli via, non fa differenza, lui trascina tutto con sé verso il mare e poi si espande. E questo è il delta”.
Durante la presentazione del libro, Lanthaler ha detto di essere debitore del cinema di Federico Fellini, del suo modo di eseguire il montaggio onirico delle scene. Gli echi sono innegabili. Leggendo per esempio passaggi come questo – “Fagocita tutto e tutti, questa nebbia del delta. A gh’era tant d’c’la nebia ch’ho supià al nas n’áltar, c’era tanta di quella nebbia che ho soffiato il naso a un altro” –, viene in mente il “nonno” di Amarcord, sorpreso dal nebbione appena uscito di casa e già avviato alla morte o alla sparizione di tutto (“Ma dov'è che sono? Mi sembra di non stare in nessun posto. Mo se la morte è così... non è mica un bel lavoro. Sparito tutto: la gente, gli alberi, gli uccellini per aria, il vino. Tè cul!“). Ma sarebbe un gioco quasi disperato mettersi alla ricerca di tutti i riferimenti disseminati tra le pagine de Il delta. I detriti della scrittura non hanno padre (né padrone), bastardi loro e bastarda la sorte che li fa incontrare e confondere sul fondo limaccioso dell’ispirazione. Fino all’ultima scena, quella che chiude il libro (e come detto lo riapre). Fumo di cucina, un cinese che non sbaglia gli accenti (Lanthaler si è dichiarato molto pignolo nelle sue ricostruzioni lessicali), e per l’ultima volta bottarga, bresaola, baccalà, babà – i correlativi oggettivi e gastronomici che riassumono i luoghi per i quali è passato il Conte – sgusciano fuori come un’anguilla: “Vedi? dice il cinese. L’acqua cala, emergono le pietre”.
Infine, un plauso al traduttore Stefano Zangrando e all’editore Aldo Mazza (Edizioni alpha beta Verlag), che hanno raccolto la sfida. Non era facile restituire in italiano il pastiche plurilinguistico dell’edizione originale. Invece ne è nata un’opera definita dallo stesso autore “Delta 2”. Chapeau.