Donne, la risorsa ignorata
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In Alto Adige, così come nel resto d’Italia, la manodopera (in particolare quella specializzata) scarseggia.
La situazione poi non sembra essere destinata a migliorare, anzi: l’inverno demografico a cui si assiste e la fuga di cervelli verso altri Paesi che offrono migliori condizioni di lavoro potrebbero presto privare il nostro territorio di preziose risorse, lasciando grossi “buchi” per quanto riguarda il personale.
C’è tuttavia un potenziale ancora non sfruttato, o quantomeno non appieno: parliamo delle donne, alle quali spesso il mondo del lavoro mette davanti diversi ostacoli.
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IL DATO
A quanto infatti riportato dal Sole24Ore, in Italia ci sono più di tre milioni di donne che si dichiarano “inattive” (che quindi non studiano, non lavorano e non cercano un lavoro) per motivi strettamente familiari, il che solitamente vuol dire per accudire i figli o in generale parenti non autosufficienti.
Si tratta di un enorme bacino di donne (con varie qualifiche) da cui si potrebbe attingere, ma per le quali è difficilissimo conciliare vita privata e lavoro.
La conferenza She Connects promossa da Confindustria Alto Adige e tenutasi qualche giorno fa a Bolzano sottolinea come nella provincia negli ultimi anni la presenza delle donne sul mercato del lavoro sia salita a circa il 70% (contro il circa 55% a livello nazionale), ma preme anche sul fatto che esista ancora un divario del 10% rispetto agli uomini.
Si tratta di un gap importante e che, se colmato, potrebbe aiutare a tamponare almeno in parte i quasi trentamila posti di lavoro che da qui a dieci anni rimarranno vacanti a causa del prossimo boom di pensionamenti.
DISCRIMINAZIONE
Ma perché le donne lavorano meno degli uomini? Oltre ai giù citati motivi familiari, frutto di una concezione ancora piuttosto radicata secondo la quale siano proprio le donne a doversi occupare dei figli e in generale dei parenti non autosufficienti (anziani, persone con disabilità…), vi sono anche questioni piuttosto “terra terra”: rimanendo infatti in Alto Adige, le donne guadagnano meno (circa il 17% a parità di qualifica e di impiego), raggiungono ruoli apicali con molta più fatica (solo il 10% dei dirigenti è di sesso femminile) e costituiscono buona parte dei contratti part-time (83,5%, dato sempre legato all’attività di cura della famiglia).
Questo è un problema non solo nell’immediato, ma anche in ottica futura, in quanto le pensioni sempre più basse potrebbero portare la popolazione femminile verso un concreto rischio di povertà in età avanzata.
Approfondendo il tema delle possibilità di carriera, l’ultima indagine EWCS Euregio ha messo in evidenza un dato curioso: il 44% degli uomini che lavora part-time in Tirolo, Alto Adige e Trentino ritiene infatti di poter avere buone prospettive di carriera, un dato superiore a quello delle donne che lavorano a tempo pieno (38%).
Ciò vuol dire che gli uomini che lavorano a tempo parziale sembrano comunque più convinti di poter fare carriera rispetto a donne che lo fanno full time, il che appare quantomeno un controsenso.
Oltre vedere scarse possibilità di carriera, le donne sembrano percepire anche una maggiore discriminazione in ambito lavorativo: sempre a livello Euregio, l’11% delle donne afferma di essere stato vittima di discriminazioni a fronte dell’8% degli uomini (in Alto Adige, la distanza si amplifica: 11% per le donne, 5% per gli uomini).
Più frequenti anche gli episodi di intimidazioni (9% per gli uomini e 11% per le donne, in Alto Adige 7% e 10%), con le lavoratrici che dunque sono più spesso oggetto di atteggiamenti aggressivi rispetto ai colleghi maschi.
DONNE IMPRENDITRICI
Se nelle imprese non c’è posto per le donne, allora le donne… se ne creano di proprie! Potrebbe essere questa una chiave di lettura (comunque tutta da verificare) al dato emerso dal rapporto Ire della Camera di Commercio altoatesina.
Nell’ultimo anno le imprese a conduzione femminile sono cresciute dell’1,2%, arrivando a toccare quota 11.407. Rispetto al numero totale si parla di circa un quinto delle aziende, un dato quindi limitato ma che costituisce un primo passo importante soprattutto se si va ad analizzare i settori di crescita.
Sì, perché l’aumento maggiore in termini percentuali (+10,6%) lo si registra nel “trasporto e magazzinaggio”, vale a dire un settore storicamente ritenuto “da uomini”, il che sembra indicare un primo step nel superamento degli stereotipi che vogliono alcune professioni riservate all’uno o all’altro sesso.
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ABBATTERE GLI STEREOTIPI…
E proprio dagli stereotipi partiamo per indicare qualche possibile soluzione al problema che, come detto, riguarda tutta l’Italia e non solo l’Alto Adige.
Ancora oggi vigono infatti evidenti pregiudizi su cosa sia “da donne” e su cosa sia “da uomini”, sia in termini lavorativi che della vita di tutti i giorni.
Serve per esempio superare i concetti secondo i quali la donna è l’unica custode della casa e dei figli, rimodellando il concetto di “maternità” in quello di “genitorialità”. Ai padri deve essere data la possibilità di avere una parte attiva nella crescita dei figli, permettendo anche alla compagna di continuare la propria crescita professionale.
Va poi abbandonata la mentalità secondo cui gli uomini sono più portati agli studi scientifici (quelli che poi solitamente portano alle professioni più remunerative) e le donne a quelli umanistici, una convinzione che non ha alcuna base concreta ma che ancora oggi sembra influenzare non poco le scelte dei giovani nel momento in cui questi decidono il proprio percorso di studi universitario.
… E ADOTTARE LE SOLUZIONI ESISTENTI
In attesa di questo cambio a livello sociale che ovviamente richiederà del tempo (anche se le nuove generazioni sembrano lanciare segnali confortanti in tal senso), le soluzioni per favorire le donne e in particolare le madri non mancano: la flessibilità oraria, per esempio, è ormai una delle richieste più comuni da parte dei lavoratori e la tecnologia offre soluzioni come il telelavoro e lo smart working (spesso confusi tra loro, ma non sono esattamente la stessa cosa) che permetterebbero alle dipendenti di gestire un po’ meglio il proprio equilibrio vita-lavoro.
Oltre alle imprese, anche le istituzioni dovrebbero agire sui servizi offerti alle famiglie: la carenza cronica di asili nido è per esempio un problema non da poco, ma si dovrebbe anche lavorare sull’aumento dei congedi parentali per i padri e sulla relativa indennità che, per ridurre al minimo l’impatto finanziario sul nucleo familiare, dovrebbe essere adeguata.
IL MODELLO SVEDESE
Se si parla di conciliazione vita-lavoro, congedi parentali e aiuti all’infanzia, un esempio virtuoso è rappresentato dai Paesi del Nord Europa.
In Svezia, per esempio, a entrambi i genitori spettano novanta giorni a testa di congedo, ai quali se ne aggiungono poi altri trecento da dividere liberamente tra madre e padre. Nelle due settimane successive alla nascita, entrambi i genitori possono inoltre fruire del congedo per avere la possibilità di accudire il bambino congiuntamente.
Guardando all’indennizzo, trecentonovanta di questi giorni sono inoltre remunerati all’80%.
È poi presente anche uno sviluppato sistema di assistenza con asili a prezzi contenuti.
I risultati di questo sistema sono notevoli: il 76% dei padri utilizza il congedo parentale, la maggior parte per periodi compresi tra sei e nove mesi (su sedici totali), e il Paese ha un tasso di occupazione femminile dell’82,2% (il più alto dell’Unione Europea).
Non sembra ovviamente un caso che il Paese scandinavo abbia quindi uno dei tassi di natalità (dieci nascite ogni mille persone contro le 6,7 dell’Italia) più alti d’Europa...
CONCLUSIONI
Portare le donne nel mondo del lavoro non appare dunque una cosa impossibile, in quanto ci sono sia soluzioni attuabili che modelli funzionanti.
Il processo di superamento dello stereotipo “donna: guardiana del focolare domestico” si sta attenuando, ma ci vorrà probabilmente ancora un po’ di tempo. Nel frattempo si può tuttavia agire nell’immediato, cercando di limitare l’abbandono del lavoro delle madri e coinvolgendo di più i padri nell’accudimento.
Certo, servono volontà e soprattutto risorse, ma in un Paese che si avvia verso una potenziale crisi della manodopera, più che a una spesa bisognerebbe pensare a un investimento a medio-lungo termine…