Le fiabe come antidoto
Chi è Claudio Tomaello? Di sé dice di essere un cartografo e di esplorare territori… E dopo aver esplorato il suo territorio nel trevigiano si è rivolto a quello dell’interiorità della persona e ha studiato psicosintesi per diventare counselor. A un certo punto, qualche anno fa, aggirandosi nei boschi finlandesi ha scoperto non solo la bellezza di quei posti ma anche la sonorità della sua voce e il piacere di narrare storie. Quali storie? Sta qui la caratteristica particolare che ci interessa, perché grazie alla conoscenza della sacralità contenuta nella lingua ebraica e nell’universo del pensiero di Rudolf Steiner ha raccontato l’evoluzione del genere umano. Come? Raccontando dal 2007 fiabe agli adulti, dopo essersi formato nelle discipline teatrali per imparare a tenere alta la tensione dei suoi monologhi. Con due cicli di tre serate ciascuno – “Le fiabe sono vere” e “Il maschile e il femminile nelle fiabe” – ha voluto dimostrare che le fiabe parlano di noi, delle nostre dinamiche interne e che il loro linguaggio simbolico, a volte oscuro, offre ampie prospettive a livello di intuizione nonché una infinita saggezza profonda.
Innanzitutto ci insegna a distinguere tra fiaba e favola: in genere si pensa che non ci sia proprio nessuna differenza e si usa un termine per l’altro confondendo, dunque, ad esempio Cenerentola narrata dai fratelli Grimm con Cenerentola uscita dagli studios della Disney nella sua versione edulcorata che ormai fa parte dell’immaginario comune. Invece c’è una differenza fondamentale, ci spiega Tomaello nel suo Liberi!: la prima rimanda alla tradizione popolare con tutta la sua saggezza antica mentre la seconda appartiene a un genere letterario munito di morale.
“Le fiabe non sono il racconto fantastico di un episodio accaduto chissà dove tanto tempo fa, ma la narrazione simbolica di ciò che sta accadendo dentro di noi adesso”, leggiamo sul suo sito dove si possono vedere i video di alcuni dei suoi spettacoli-racconti. E cosa accade dentro di noi, adesso, ai tempi della pandemia? Tomaello non prende a caso l’esempio di Cenerentola. Pochi conoscono la versione originale della fiaba: la versione più nota è quella in cui la protagonista si abbassa al volere della matrigna e riesce a trasformare la (auto)sottomissione unicamente grazie alle magie della fata… Chi non conosce la zucca che si trasforma in carrozza ma il cui incantesimo scade a mezzanotte? Ebbene nella fiaba non esiste nessun incantesimo bensì è la volontà stessa di Cenerentola a farla agire, a farla correre alla festa danzante per ballare col suo principe, eccetera.
Perché ce lo racconta Tomaello? Lo fa dire al suo personaggio, un giornalista in formazione che vuole scrivere la tesi sulla comunicazione nei massmedia ai tempi del Coronavirus e non vuole sposare tout court i dati ma indagando i fatti concreti. Guidato da un saggio professore che come leitmotiv (nel vero senso del termine, ossia “immagine guida”) gli consegna la fiaba di Cenerentola per l’appunto con qualche nota precisa sparsa in qua e là, del tipo “scava il testo fino in fondo” oppure “non farti ingannare dagli incantesimi”. Il giovane inizialmente perplesso comprende piano piano i laconici consigli del suo professore – già ai margini dell’ambiente di studiosi per il suo deviare dal pensiero unico – e inizia a fare la propria ricerca analizzando non solo articoli e banche dati ma soprattutto comportamenti e atteggiamenti generati da una tale massa di informazioni e di come un simile modo di informare sia molto più vicino alla “inform/azione” ossia a un “mettere in forma”, in una unica forma…
Egli capisce che, come Cenerentola viene mostrata ai più come “sottomessa” e “addormentata” e sa svegliarsi soltanto grazie a interventi dall’esterno, cioè gli incantesimi, oggi come oggi molte persone sono “sottomesse” e “addormentate” dalla massa di notizie gettate nel nostro quotidiano e che sono soltanto gli incantesimi contemporanei (lascio immaginare ai lettori e alle lettrici quali possano essere al giorno d’oggi…) a renderle più o meno felici nella loro posizione di “inazione” anziché “in azione”. Va quindi recuperata la saggezza della fiaba che ci spinge all’essere attivi e a non accettare tutto passivamente… così come di fronte alla rabbia che può provocare una situazione davanti alla quale ci sentiamo impotenti è utile usare questa energia per metterci in azione e mantenere uno spirito attento e critico.
Per poi salire sulle barricate e scendere in piazza e protestare? No, l’antica saggezza non ci vuole condurre verso il classico percorso dell’ “occhio per occhio, dente per dente”, bensì ci guida grazie al simbolico percorso di formazione di un altro personaggio fiabesco verso una nuova via, la gratitudine, con cui si possono illuminare anche i tempi più bui. Curare se stessi non in senso egoista ma altruista per curare e amare l’altro e l’altra, ciò che ci circonda, i nostri vicini, l’ambiente - per forse creare un mondo migliore? A dispetto di un minuscolo virus che ci sta mettendo in ginocchio? A focalizzare le piccole cose nella nostra vita quotidiana e al contempo progredire sul nostro cammino, con determinazione, verso la giustizia, la verità, il benessere, la salute, il lavoro – per tutti.
La cultura riesce sempre a svegliare le coscienze e se ci vietano di usufruirla insieme negli spazi comuni, pratichiamola singolarmente, ognuno e ognuna nel proprio spazio, in modo più forte che mai, affinché le nostre anime si possano rincuorare e di qui far nascere nuove idee, nuove strade, nuovi percorsi, nuovi universi – pluriversi. Ricorrendo alla poesia intravedibile nel nostro quotidiano.
E citiamo in ultimo, per stimolare la riflessione di chi ci legge, un piccolo racconto che Claudio Tomaello offre in fondo alla pagina in cui parla della sua biografia sul suo sito che consigliamo di visitare (www.claudiotomaello.com):
Era affranto sul suo trono il re quella mattina, come tutte le mattine. La smorfia di dolore era impietosa testimone del suo fallimento: tutta la vita aveva cercato, il Santo Graal, seguendo qualsiasi traccia gli venisse suggerita. Aveva solcato mari, valicato monti, incontrato stregoni e fattucchiere, ma sembrava che in tutto il mondo conosciuto non ci fosse traccia di quel calice. E la delusione nel tempo era cresciuta insieme a quella ferita che gli piagava l’inguine e che sembrava trasmettere il suo fetore al mondo intero.
Quella mattina gli si avvicinò un giullare, che lo vide assetato. Mosso a compassione, offrì al suo re un po’ d’acqua. Il re, in qualche modo sorpreso di quel gesto, bevve e la sua gola provò così tanto piacere per quella frescura che l’attraversava, che solo in un secondo momento il suo sguardo fu attirato dalla forma della coppa dalla quale aveva bevuto e …. immediatamente trasalì. Era quel calice che aveva cercato da sempre!
Con il respiro ancora trafelato e lo sguardo stupito si rivolse al giullare, chiedendogli: “Ma come hai fatto? Come sapevi?”. E questi, nella sua semplicità, gli rispose: “Non lo so, maestà. Io so solo che voi avevate sete”.