Culture | Salto Afternoon

Uno sguardo profondo…

…spento per sempre: Mario Deghenghi, "cameraman" dal 1945, è morto a 95 anni nella sua casa a Merano il 12 aprile 2020 per un colpo al cuore
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Foto: Agostino Fuscaldo

L’appuntamento era (quasi) fissato per quel martedì 25 febbraio, ma di fronte all’affacciarsi del virus avevo preferito rimandarlo appartenendo il partner della mia intervista al gruppo di alto rischio di infezione essendo lui ultranovantenne: Mario Deghenghi.

 

Purtroppo le domande che volevo porgli non avranno mai più risposta, perché il cameraman nato nel 1925 a Baden vicino a Vienna è morto per un colpo al cuore la domenica di Pasqua, 12 aprile 2020. Cresciuto nella capitale austriaca, era arrivato a Merano dapprima bambino in vacanza negli anni tra le due guerre e dopo, nel 1947, da uomo adulto per stabilirvisi, controvoglia - come ha sottolineato in una intervista di due anni fa sull’ “Alto Adige”: “mi trovo male, non ho amici tedeschi e non amo le montagne”. Eppure, colui che iniziò la carriera come assistente operatore sui set di una leggenda del cinema come Georg W. Pabst, nella provincia di Bolzano aveva contribuito a far crescere l’emittente Rai in lingua tedesca sin dal 1967 (il primo Tg in lingua tedesca fu trasmesso il 7 febbraio 1966 dalla redazione di Roma), assieme ai compagni di sempre: Bruno Jori e Karl Schedereit. Quest’ultimo ben presto preferì andare in giro per il mondo per i suoi documentari e Jori era morto (troppo) giovane nel 1970 a causa dello stress accumulato sul lavoro dato che in quegli anni i registi dovettero recarsi a Roma per montare il girato, e possiamo immaginare quale impegno mortale (appunto!) poteva essere stato quell’andirivieni dai set fino agli studi della Rai romani, Deghenghi si era fermato a Merano, fondandovi la sua Telefilm nel 1972 e realizzando in seguito centinaia di film tra documentari di vario tipo e partecipando a film di finzione.

 

La passione per il cinema l’aveva ereditata dal nonno paterno che originario italiano visse in Croazia, a Pola, mentre a Ljubiana (allora ancora Laibach) gestì una sala cinematografica. Suo padre era migrato a Vienna, dove aveva conosciuto la madre originaria di Baden, per l’appunto. Fu proprio l’amore per l’immagine e il piacere di fotografare a salvare il giovane Mario da un impegno al fronte essendo lui, come tanti altri, arruolato negli ultimi anni della seconda guerra mondiale. Una simile facoltà poteva essere utile a un regime che della propaganda con l’immagine in movimento aveva fatto uno dei pilastri fondamentali per diffondere i propri ideali, per cui al soldato Mario fu data una macchina da presa ai fini di riprendere scenette adatte per essere montate nei cinegiornali nazisti. Il piacere di avere quel giocattolo per le mani era durato poco, però, in quanto immediatamente prima della capitolazione di Berlino la macchina propagandistica fu trasferita completamente in Germania. Come leggiamo su “Vissidarte” (del 2016) il giovane Deghenghi avrebbe visto coi suoi occhi il camion saltato in aria a causa di una bomba cadutavi poco dopo che lui e altri vi avevano poggiate le loro cineprese avute in prestito dall’esercito.

Ecco, quella mattina del 25 febbraio avrei voluto guardare negli occhi dell’oggi anziano “soldato dell’immagine” Deghenghi scrutando il suo sguardo profondo e chiedergli della Vienna suddivisa in quattro settori – al pari di Berlino – durante l’occupazione delle forze alleate: di come era quello russo, francese, americano e inglese. Avrei voluto sentirmi dire cosa avevano visto quegli occhi durante il primo incarico di collaborare a un rotocalco nel settore francese dentro quello studio, dove fu all’opera anche il già citato regista G. W. Pabst che stava preparando il suo Processo dal racconto omonimo di Franz Kafka, alla cui lavorazione avrebbe poi partecipato.


Avrei voluto chiedergli com’era lavorare sul set di un regista che aveva iniziato nel periodo del muto (per chi non lo conosce consiglio La via senza gioia con una giovane Greta Garbo del 1925 o Il vaso di Pandora del 1929) il quale come periodo storico culturale era per altro finito giusto 16 anni prima.

Avrei voluto chiedergli che cosa aveva imparato da chi dovette costruire immagini per un linguaggio visivo talmente espressivo da poter comunicare senza (o quasi) il parlato? E che cosa lui da buon vecchio lupo del mestiere avrebbe voluto o potuto dire ai giovani di oggi di fronte a un parlato che prevarica ovunque nei film in cui per la maggior parte le immagini sono diventare “serve” dei dialoghi fungendo da mera colonna di supporto anziché da portatore di senso.

Avrei voluto chiedergli che cosa i suoi occhi avevano visto quando si recò nel settore russo per aiutare a filmare (era addetto ai movimenti di macchina) per conto della Wien Film la ricostruzione dei ponti sul Danubio da parte dei russi. E avrei voluto vedere la luce nei suoi occhi quando mi avrebbe raccontato del momento magico in cui suo padre gli regalò la prima cinepresa 8 mm, finalmente tutta sua. Perché da lì in poi fu tutta un’ascesa, non senza ostacoli, certo, in quanto durante il periodo di formazione professionale come operatore con la Wien Film durata tre anni aveva guadagnato poco o nulla, e la casa della famiglia Deghenghi bombardata era divenuta inabitabile, motivo per cui si erano spostati a Merano per viverci. Per Mario ciò voleva dire: fine del sogno hollywoodiano.

 

Le prime impressioni di deserto totale per quanto riguarda il cinema sparirono ben presto una volta conosciuti i già citati Jori e Schedereit (quest’ultimo giunto da Monaco), Bruno Pokorny, allora direttore della Urania che da grande appassionato di cinema volle indire una rassegna cinematografica, e Walter Bertolazzi, produttore, per il quale poi Deghenghi avrebbe realizzato il suo primo corto Merano in fiore commissionato dell’Azienda di soggiorno. Siamo nel 1948: si girò in 16 mm e altre commissioni sarebbero seguite. Karl Schedereit aveva portato le tante esperienze raccolte in Germania (nel 1962 avrebbe fatto parte del gruppo che chiese “la morte del cinema di papà” col Manifesto di Oberhausen, tra i 26 membri c’erano tanti altri, come Herzog, Fassbinder, Kluge, i grandi nomi del Nuovo Cinema Tedesco che sarebbe nato in seguito). Con lui, Mario si recò a Napoli nel 1956 per girare nell’oggi leggendario formato cinemascope, molto in voga allora negli Usa perché l’ampiezza visuale dello schermo allargato poteva garantire un altro tipo di esperienza visiva per il pubblico che già preferiva rimanere in casa comodamente seduto sul divano per guardare le immagini diffuse dai sempre più presenti televisori. In Europa tutto era ancora sul nascere, e il duo - noleggiata una delle macchine da presa di quel tipo presso la Bavaria - realizzò i dieci minuti di Der Golf von Neapel (Il golfo di Napoli) come parte di una serie di brevi film molto amata dal pubblico tedesco sull’Italia.

Poco dopo bussò alle porte il governo turco che volle creare un progetto analogo sulla Turchia moderna, e il duo andò nel paese ottomano per realizzarlo nonostante le difficoltà tecniche perché ai tempi non ci furono stabilimenti di sviluppo e stampa adeguati in Turchia e il girato dovette essere mandato in Germania. Il documentario finito non lo videro mai, i due, e tanto meno il pubblico cui era destinato: non a causa di una ipotetica censura, no, semplicemente perché le sale turche non erano state attrezzate con proiettori in cinemascope. Ecco un’altra domanda che avrei voluto porre a Mario Deghenghi: se ne sapeva qualcosa di quel filmato, dove si poteva andare eventualmente a cercare materiali, in quanto a mio avviso potrebbe avere un suo valore storico, oggi. Chissà se qualche pizza - come si chiamavano in gergo le scatole di latta in cui vennero conservate allora le pellicole - è sopravvissuta su qualche mensola sperduta? E chissà se qualche ricercatore avrà voglia di assumersi l’incarico di andare a scovare negli archivi di Istanbul o Ankara?

Realizzò le immagini di numerosi film tra documentari e finzione, si era specializzato (anche) nel girare film tecnici per odontoiatria lavorando con lo studio Singer di Merano, ha filmato le opere liriche rappresentate all’Arena di Verona, ha avuto davanti al suo obiettivo leggende del cinema come Sofia Loren (giovanissima) e Liz Taylor col marito Richard Burton in gita a Venezia, ha filmato il leggendario matrimonio dell’attrice per eccellenza di Alfred Hitchcock, Grace Kelly, col principe Rainer III di Monaco, è stato premiato al festival del cinema di montagna di Trento per Ogni giorno all’alba di Enzo Pizzi, giornalista bolzanino che aveva indagato le difficoltà di bimbi altoatesini nei paesini in alta montagna per andare a scuola d’inverno, tra cui Solda, San Pietro in Valle Aurina, Resia e Curon in Val Venosta. La lista si farebbe lunga, troppo lunga…


Digitando Telefilm si trova il sito della storica casa di produzione, passata nel 2002 nelle mani del figlio adottivo Gottfried che merita un altro paragrafo, narrando anche questo aspetto una delle tante caratteristiche di Mario Deghenghi che da quanto leggiamo tra le righe delle (poche) interviste che abbiamo trovato in rete era un uomo con quel tipico sense of humour viennese dotato di un grande cuore e una mente lucida. Fu nel 1969, durante le riprese per uno dei tanti documentari realizzati per la Rai locale, che conobbe la famiglia Frank che viveva (e vive tuttora) in uno dei masi sperduti di Mazia nella valle omonima che parte da Malles verso le Ötztaler Alpen austriache. La madre di undici figli era gravemente malata e quindi l’intera famiglia in grave difficoltà. Deghenghi, sposato con Renata, originaria di Trieste, non ci aveva pensato su due volte e prese con sé il più piccolo, Gottfried, per successivamente adottarlo e una volta cresciuto portarlo con sé per introdurlo nel meraviglioso mondo delle immagini che questi, con gioia, fece suo, anche girando il mondo e imparando altre lingue.

 

Dell’ampio operato rimane la bella testimonianza audiovisiva raccolta da Brigitte Margesin nel ritratto di 15 minuti da lei firmato, Mario Deghenghi: Ein Leben mit der Kamera, nel 2005 in occasione dei suoi 80 anni. Lo vorremmo vedere presto trasmesso da Rai Südtirol, visto che – come leggiamo nel testo che accompagna la sua presentazione al Filmclub di allora – Mario Deghenghi “non rappresenta soltanto una vita per il cinema e la televisione, bensì il costituirsi del fare cinema in Alto Adige in un senso storico-culturale, essendo testimone della creazione dell’emittente di lingua tedesca all’interno della Rai”. Egli è al contempo attore e cronista di un tempo in cui l’Alto Adige ha trovato un proprio linguaggio, grazie al Sender Bozen, oggi Rai Südtirol.