Il maggio del nostro coraggio
Ormai ne possiamo esser certi. Anche questo maggio non ha fatto a meno del nostro coraggio. Anche in questo mese un po’ cerniera tra una Fase alfa e una Fase beta del nostro rapporto con il coronavirus, abbiamo cercato di contrastare il Covid-19 e lo sconforto, la pandemia e il dolore condiviso e collettivo.
Molti lo stanno facendo provando a scriverne. I grandi giornali e alcuni scrittori di professione hanno già pubblicato – e da settimane – diari, scansioni quotidiane del proprio lock down, racconti di gruppo e riflessioni private. Siamo già a decine di contributi.
Einaudi e Corriere della Sera hanno dato voce a Paolo Giordano e al suo “Nel contagio”. Difficile, francamente, fare meglio. O almeno avvicinarvisi. Più opportuno è allora tacere. E comunque, misurarsi con Paolo Giordano è impresa (quasi) impossibile. Ofelè fa el to mesté! (Pasticciere fa il tuo mestiere) è l’invito che ricorre di nuovo, non solo a Milano. E mai come in questo periodo abbiamo bisogno di chi fa un unico mestiere e lo fa bene, senza risparmiarsi.
Ecco allora, a proposito di questo maggio del nostro coraggio, limitarci qui solo ad alcuni interrogativi. Ci stiamo riappropriando nella nostra schiettezza, ci parliamo chiaro di nuovo e forse con una intensità nuova. Diffidiamo di chi sgattaiola da un tema all’altro non riuscendo a fissarne neanche uno.
Dovremo allora tutti cercare di capire che cosa sia e che cosa stia diventando il nostro coraggio. Per prima cosa abbiamo capito qualcosa di più del nostro rapporto con il tempo e con lo spazio. Che non vuol dire scrutare l’orologio nel nostro appartamento chiedendoci perché il fattorino delle pizze stia ritardando, ma qualcosa di più.
Poi, siamo riusciti (e anche qui ci è voluto coraggio) a porci alcune domande sul Dopo? Anche nei giorni in cui i giornali riferivano di possibili nuove emergenze sanitarie in autunno, ovvero la stagione della tregua o, come si dice copiandoci a vicenda, della Ripartenza?
Difficile dare ragione a tutti, meglio dare più spazio a chi si sta assumendo le proprie responsabilità, magari anche in silenzio
La prima domanda che ci scambiamo è “come stai?”, rivolta a persone delle quali, ora, ci interessa davvero conoscere qualcosa dello stato d’animo, del livello di disagio, della temperatura dell’umore. Chiunque scriva sui giornali in questi mesi, dopo l’obbligo tassativo di una doppia verifica delle fonti delle notizie, prima chiede “come sta?” al proprio interlocutore. Poi trova uno spazio, anche angusto, per rispondere alla stessa domanda e solo al termine di questa piccola ma preziosa liturgia inizia a impostare il proprio articolo per qualunque medium, dalla carta stampata al web, dalla radio alla tv.
Sulle domande riguardanti il Dopo, confessiamolo, siamo ancora smarriti. Ma già aver capito che non ne stiamo uscendo poi così migliori e più solidali ma forse solo un po’ meno volgari e intolleranti, è importante.
Ancora domande. I benpensanti sono rimasti tali? Coloro che combattono il coronavirus con una creatività che non è altro che autoreferenzialità (ci sono anche loro, ahinoi) stanno provando a rialzare la testa? E qualcun altro non prova forse a dire che il coraggio di medici, infermieri (e pazienti e famiglie) va condiviso con altre categorie di persone, dai genitori agli insegnanti alle signore in crisi di astinenza da estetista? Difficile dare ragione a tutti, meglio dare più spazio a chi si sta assumendo le proprie responsabilità, magari anche in silenzio.
Ecco, ci vuole coraggio. Non solo in questo maggio.