Society | Eguaglianza

Avvocati e selezione sociale

La crisi delle vocazioni tra avvocati richiede di interrogarsi sulla selezione delle classi dirigenti.
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Foto: celsi

Una crisi delle vocazioni. Recentemente è stato lanciato l’allarme per il forte calo che, in provincia, conoscerebbe il numero degli avvocati. Molti laureati in giurisprudenza sembra preferiscano intraprendere altre strade professionali. Gli avvocati intervenuti in proposito hanno avanzato svariate ipotesi per spiegare il calo. Mi pare, però, che sia stato taciuto un aspetto fondamentale.

 

La pratica forense

 

Per accedere all’esame da avvocato è necessario svolgere una “pratica forense” di 18 mesi, durante i quali il laureato lavora presso uno studio legale per imparare – dopo i cinque anni all’università, più teorici – le basi pratiche del mestiere. Soltanto al termine di quest’anno e mezzo si può provare l’esame.

Molti, in realtà, svolgono la pratica forense più a lungo, in quanto l’esame di Stato ha luogo soltanto una volta all’anno, e poi comunque bisogna aspettare più di mezzo anno per conoscere i risultati. Chi non lo abbia passato al primo colpo (cosa che a Bolzano succede soltanto a una fortunata, piccola frazione dei candidati) deve riprovarlo l’anno successivo, nel frattempo spesso continuando a lavorare nello studio.

 

La retribuzione

 

Bene: quanto vengono retribuiti i praticanti avvocati? Il compenso non è regolamentato, cosicché sono i singoli avvocati a decidere quanto riconoscere ai tirocinanti che lavorano presso di loro. Non è un mistero, tuttavia, a quanto ammontano i compensi. In molti casi, si tratta di importi tra i 300 e i 500 euro al mese, lordi. O anche di meno, fino a zero.

Tante ragioni vengono avanzate per giustificare simili importi. La pratica forense non sarebbe proprio “lavoro”, quanto un periodo formativo per l’aspirante avvocato. Il contributo effettivo del giovane laureato sarebbe tutto sommato modesto. Molti studi legali hanno dimensioni limitate e non potrebbero permettersi di pagare al tirocinante uno stipendio vero e proprio. Lascio alle lettrici e ai lettori il giudizio. Di certo, non è dappertutto così: ad esempio, in Austria durante la pratica forense si riceve uno stipendio pieno, completo di contributi previdenziali.

A me interessa piuttosto evidenziare due conseguenze di ordine sociale che tale condizione comporta. Conseguenze che trascendono le posizioni dei singoli e che richiederebbero pertanto di venire discusse più ampiamente, al di là dei circoli di giuristi. La situazione, del resto, interessa gli aspiranti avvocati così come tanti altri percorsi professionali.

 

A casa dai genitori

 

Innanzitutto, cosa deve fare una persona che, dopo gli studi all’università, e quindi almeno venticinquenne, riceve per due o tre anni una retribuzione di 300 euro lordi al mese? Ammettiamo anche che la integri di un paio di centinaia di euro tramite la borsa di studio che la Provincia, facendo ricorso alla fiscalità generale, offre. Potrà la nostra tirocinante andare a vivere da sola, emancipandosi, come sarebbe nell’ordine delle cose, dalla famiglia d’origine? Potrà guadagnare quanto necessario per condurre una vita dignitosa e magari pure sviluppare ulteriori interessi (un corso di lingua, un’attività sportiva che necessita di un investimento economico)? E forse anche dedicare una parte del proprio tempo a impegnarsi nella comunità? E, non sia mai, fondare una famiglia?

Sono, chiaramente, domande retoriche. La nostra giovane laureata, il nostro giovane laureato non riuscirà a risparmiare nulla ne per sé ne per altri, non accumulerà contributi previdenziali, e tornerà molto spesso a vivere con i genitori.

Diverso è il caso di chi proviene da famiglie benestanti, le quali possono sostenere finanziariamente – dopo gli anni di studio universitario – pure gli anni della pratica forense, aiutando i figli sino quasi ai 30 anni d’età.

 

Selezione economica

 

Arriviamo così al secondo punto. In vista dei compensi simbolici, molti laureati non possono permettersi di svolgere la pratica forense e intraprendere, in tal modo, la professione da avvocato. Non è l’unico motivo, ma anche questo spiega il calo dei numeri. Tra coloro che comunque optano per questa strada, mentre qualcuno vi riesce attraverso grandi rinunce personali, non pochi lo possono fare perché dietro di sé hanno una famiglia abbiente che è disposta a sostenerli per ulteriori anni, finanziando l’affitto di un appartamento, le spese, gli acquisti. Anche per chi proviene da tali famiglie una condizione, con tutta probabilità, non piacevole.

Una situazione simile, o forse anche peggiore, si presentava fino a pochi mesi fa per giudici e sostituti procuratori. Fino a una recente riforma, per poter accedere all’esame di magistratura era necessario essere avvocato o comunque presentare titoli che mostravano simili criticità: aver concluso un dottorato di ricerca, un corso specializzante, o – sic – aver svolto un tirocinio di un anno e mezzo presso gli uffici giudiziari, riservato ai migliori laureati italiani, in cui lo Stato (!) riconosce ai propri tirocinanti una retribuzione di importo “non superiore a 400 euro”. In molti casi l’ammontare effettivo è ancora inferiore.

Di nuovo: chi si può permettere, a 26 o 28 anni, simili compensi, senza neanche la garanzia – tutt’altro – di ottenere l’agognata posizione?

 

Selezione sociale

 

Nulla contro chi è benestante e sostiene l’avvio professionale dei propri figli. Anche per questi ultimi, del resto, è sgradevole vedersi costretti a far affidamento sui contributi dei genitori nonostante il grande impegno di studio e lavoro. Si tratta piuttosto, i gentili lettori e lettrici avranno compreso, di una questione più ampia.

Riconoscere simili compensi a giovani laureati comporta che l’accesso a determinate professioni di rilievo sociale – avvocati, magistrati, e non solo – diventi proporzionale al reddito delle famiglie di provenienza. Chi è in origine benestante può, con relativa facilità, sostenere i vari anni di tirocini richiesti per poter accedere agli agognati esami. Chi, invece, proviene da contesti sociali più umili, fa maggiore fatica a finanziare i tirocini e non di rado, a prescindere dalle proprie capacità, rinuncia da principio ad ambire a certi ruoli professionali.

Una selezione sociale che, per chi ha a cuore il principio di eguaglianza, non può che causare disagio.