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L'arte del romanzo

Martedì è morto a 94 anni lo scrittore di origine ceca Milan Kundera a Parigi. Un ricordo di Stefano Zangrando.

Milan Kundera non amava i riflettori. Non per misantropia, ma l’esperienza della sorveglianza totalitaria lo aveva reso geloso della propria vita privata. Non solo: rilasciava pochissime interviste e a un certo punto ha proprio smesso, convinto com’era che i suoi romanzi dicessero già da sé tutto quel che dovevano dire. Del resto non era quel che si dice un autore militante, preferiva tenersi a una cauta distanza dall’attualità, stare nei tempi lunghi della riflessione prospettica e nel suo travaso nell’estetica romanzesca. Non è un caso se il catalogo Adelphi dell’opera kunderiana comprenda un unico volume di carattere politico (Un occidente prigioniero, 2021), che è anche il più sottile ed è un recupero tardivo. È altrove, nei romanzi stessi, che Kundera restituiva il proprio sguardo sulla Storia e sulla vita individuale, due dimensioni che considerava interdipendenti, come dichiarò nel 1984 in un dialogo con Ian McEwan: «gli orrori che si compiono sul grande palcoscenico della politica si ostinano a rispecchiare i piccoli orrori della nostra vita privata». Per questo nei suoi romanzi la dimensione personale, persino nei momenti più intimi, riflette sempre ciò che accade in quella collettiva. E il romanziere che esplora l’esistenza così intesa lo fa sempre con spirito conoscitivo, perfino gnoseologico, secondo la lezione di Hermann Broch che Kundera fece propria affermando che «la conoscenza è la sola morale del romanzo» e che perciò «un romanzo che non scopra una porzione di esistenza fino ad allora ignota è immorale». 
 

Ci ha insegnato a ridere leggendo Kafka e a non fermarci al nichilismo leggendo Nietzsche.


Non era sempre stato così intransigente. Figlio di un musicista e scrittore versatile, nonché attivamente partecipe al dibattito culturale del suo paese e di quella che lui chiamava «Europa centrale», solo dopo il ’68 praghese scelse di dedicarsi quasi esclusivamente al romanzo, giungendo a rifiutare ciò che, della sua opera precedente, non rientrasse nella sua nuova (po)etica. In particolare, voltò le spalle alla poesia e a ogni «lirismo», in cui scorgeva un’insidia dogmatica e conformista contraria allo spirito dell’arte nata con Rabelais e Cervantes. È la stessa tentazione cui cede Jaromil, il giovane personaggio de La vita è altrove (1969), che finirà poeta di regime prima di morire per un raffreddore. 
Kundera diffidava dell’entusiasmo lirico, ma tanto più sapeva cogliere la poesia della prosa e del concreto. Dal primo René Girard aveva tratto la lezione per cui il desiderio non è mai diretto da un soggetto a un oggetto, cioè «romantico», ma si avvale sempre di un terzo elemento che viene imitato, ed è quindi «romanzesco», proprio perché a smascherarne la triangolazione sono stati i grandi romanzi moderni dal Don Chisciotte alla Recherche proustiana. Ci ha insegnato a ridere leggendo Kafka e a non fermarci al nichilismo leggendo Nietzsche. Sapeva che il successo si basa spesso sul malinteso ed è foriero di ulteriori fraintendimenti. Fu considerato misogino da una parte del femminismo militante, eppure basterebbe rileggere il Simposio, racconto cardinale degli Amori ridicoli (1970) e squisita riscrittura del dialogo platonico, dove nessuno ha ragione, ovvero ognuno ha la sua: lì, dove il dottor Havel si gongola nella propria teoria sulla «fine di Don Giovanni», neppure il meno narcisista dei personaggi maschili sfugge alla messa in scacco da parte di quelli femminili. Fu poi Kundera stesso, in quel denso anti-breviario che è L’arte del romanzo (1986) a proporre una definizione risolutiva del «misogino» che si richiama agli archetipi e alla nostra disarmonia con gli stessi. Del resto, a dispetto di qualche leggenda che ancora circolava finché Kundera pubblicava, l’uomo era fedele e aveva un senso profondo dell’idillio amoroso: lo stesso in cui si chiude la vicenda di Tomáš e Tereza nel finale de L’insostenibile leggerezza dell’essere, uno dei più commoventi del Novecento letterario europeo. 

Si dice che sia stato più volte in odore di Nobel, ma c’è da credere che non gli importasse granché.


Nel corso degli ultimi decenni fu capito sempre meno, mentre pagava l’assenza dai media in un’epoca che richiedeva sempre più presenza. Il passaggio dalla forma musicale della sonata, con cui compose le sue opere maggiori, a quella della fuga, cui si ispirò nei romanzi brevi degli anni novanta, che scrisse in francese, fu comunque più apprezzato dell’unione delle due forme nel brevissimo e incompreso La festa dell’insignificanza (2013), dopo il quale Kundera scelse il silenzio anche come romanziere. Si dice che sia stato più volte in odore di Nobel, ma c’è da credere che non gli importasse granché. Si è spento martedì, a 94 anni, nella Parigi dove si era trasferito in esilio volontario fin dal 1975. Ci restano i suoi romanzi e i suoi saggi, che hanno rinnovato l’«arte del romanzo» e forgiato la sua comprensione con un’originalità che non ha eguali. Una lezione poco imitabile, ma comunque inaggirabile.