Culture | Šostakovič

12 agosto - L'addio e l'invasione

Non so come siamo arrivati alla Quarta Sinfonia e al gatto Šostakovič. So che, dopo l’intervallo, sedeva serissimo nella mia borsa anarchica e capiente...
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In principio mi ero intestardita a trovare qualche dettaglio insolito su cui concentrare l’attenzione, per poi scoprire le mie coincidenze ed i messaggi segreti di cui è intessuto questo festival. Ma il mio sguardo distratto tornava al palco e agli orchestrali che entravano alla spicciolata. Su tutti, il percussionista del concerto di Bruch diventa - con la parete in legno alle sue spalle, le bandiere europee accanto e le luci dall’alto - la polaroid di un ragioniere alle Nazioni Unite.

Poi è entrata Vilde Frang che mi ha presa al laccio e tenuta stretta fino alla fine.

Il suo abito verde salvia brilla con grazia, come cosparso di rugiada; ricorda una Madonna del Cinquecento, pervasa di dolcissima tensione. Le braccia, prima morbide e tornite, diventano, con la prima nota, un’entità indipendente, dove gli stessi avambracci sembrano muoversi senza essere subordinati al resto del corpo. Pare un’amorosa lotta tra lei ed il violino, in cui entrambi hanno la meglio; una schermaglia che li vede a turno, vinto e vincitrice, vincitore e vinta; un alternarsi di ruoli che è quasi un serissimo gioco. E da questo contrasto nasce una musica che è per me il concerto dell’addio, del saluto struggente che gli occhi sussurrano, mentre si posano su ogni dettaglio, cercando di fissarlo per sempre nella memoria. Tutti i saluti definitivi ed ogni lacrima versata o trattenuta si raccolgono qui stasera, a consolarci di ogni perdita.

Non so come siamo arrivati alla Quarta Sinfonia e al gatto Šostakovič. So che, dopo l’intervallo, sedeva serissimo nella mia borsa anarchica e capiente; col ciuffo scomposto, lanciava occhiate severe da dietro gli occhiali spessi.

Una parata grottesca ha invaso la sala, mentre gli orchestrali sono sul punto di spezzare gli strumenti e conquistare ogni spazio attorno a noi; si espandono, mentre il Maestro conduce l’assalto.

C’è un’aria marziale di violenza scomposta, boriosa, brutale. Poi una piccola goccia d’acqua, inesorabile, si infiltra tra le pieghe del suono, aumenta il suo volume e fa esplodere la minaccia in agguato. Siamo trascinati dalla potenza oscura di un capo; davanti a noi, sopra di noi, ovunque attorno a noi, ci cinge il suo abbraccio mortale tanto che desideriamo solo annullarci nella sua stretta e assaporarne l’onnipotenza.

Siamo come falene attorno al fuoco, sedotti dalla morte del pensiero, da una rassicurante assenza di responsabilità. Intravedo un barlume di rivolta, quando le voci di singoli strumenti iniziano a rincorrersi, emergendo dal gorgo.

Alla vertigine segue la caduta e poi un’ascesa infida. La libertà si veste d’enfasi, facendoci sentire tutti infinitamente buoni e giusti; ma l’intenerimento dura lo spazio di un’ubriacatura.

Feriti, avanziamo tra le rovine trascinando i piedi. La gioia si affaccia titubante ed incerta. Forse il futuro che splende all’orizzonte lo abbiamo già tradito.

Metto la testa nella borsa per vedere dove si è rifugiato Dmitrij, sempre così schivo. Lo trovo in un angolo remoto che fuma l’ennesima sigaretta e quello che scorgo sul suo volto mi pare un sorriso incerto.