La maledizione del chiodo

I primi d'agosto del 1944, presso il lager di Rovensbruck, in una calda e bella giornata di sole, si spalancò dopo settimane trascorse nel buio totale, la porta di una cella particolare. Fuori apparve un ufficiale delle SS che annunciò allegramente alla persona reclusa e paralizzata dalla paura, mentre cercava di coprire gli occhi dal accecamento:
”Sei libera, sei l’ultima zingara di Auschwitz, sei l’ultima zingara dell’Europa. Non c’è più nessuno, sono tutti partiti … passando dal camino. Non dovrai mai dire a nessuno, a nessuno tutto quello che hai visto qui, altrimenti ti ritroveremo di notte, come un incubo”
Era Ansa, la storia fiabesca della zingara tedesca Ansa, bella, alta, magra e con occhi sempre bassi per paura di parlare con lo sguardo, e descrivere tutto quello che ha visto. Era la sopravvissuta diventata una fata nella cultura “zingara”, ossia un personaggio favoloso e stimato, ogni qualvolta i nomadi vogliono narrare oralmente il loro orrore, tutto quello che subirono nei campi del lager.
Ansa sarà la memoria negata, estirpata di un popolo remoto e buono, intelligente e artista. Sarà per via di questa storia, la paura del ritorno dell’uomo nero che minacciò la fata Ansa il 2 di agosto, che i nomadi fanno fatica a raccontare e sventolare la bandiera delle sofferenze subite.
Loro sapranno,che ancora, da qualche angolo dell’anima di gagé si sveglia quell'ufficiale di notte e fa passare quel che è rimasto dai nomadi , dal camino. Sono la gente come Ansa, gli stessi uomini, donne e bambini che dopo la guerra non furono mai riconosciuti vittime, dimenticati o ignorati nei processi e nei risarcimenti.
Esistono due leggende riguardo “La maledizione del chiodo”. La prima, assai cruente vanta di attribuire ai rom e sinti la consapevolezza accanto ad ebrei della Passione di Cristo. Secondo loro, erano gli zingari che avrebbero preparato i chiodi lunghi e acuminati per il supplizio, visto che erano fabbri e artigiani di metalli. La macabre leggenda portò i due popoli maledetti, uno accanto all’altro alla eliminazione terrificante, di 6 milioni di ebrei e mezzo milione di rom e sinti. Seguiti, uno dalla maledizione della crocifissione, e l’altro dalla maledizione del chiodo nei campi del lager, era così potente il pregiudizio, che gli altri sventurati non li volevano nella stessa baracca. Cosicché tutti vennero messi in un campo di soli zingari.
A me piacerebbe invece ricordarvi la seconda legenda, quella con la quale il popolo dei nomadi cerca di mettersi in gioco, scherzandoci sopra, sbeffeggiando le credenze di gagé. La leggenda ritrae la stessa figura dello zingaro, che invece di preparare i chiodi per Gesù, glieli leva per alleviarne la sofferenza.
Quel che suscita curiosità è quel che venne fuori dalle stesse ricerche dei scienziati nazisti, cioè il fatto li zingari non erano una razza inferiore, anzi...
Cosi scriverà il temibile dottor Robert Ritter,medico e psicologo tedesco,mai condannato per insufficienza di prove: "E’ chiaro che i zingari hanno lo stesso sangue ariano”. E aggiungerà in seguito: ”Durante le continue migrazioni si sono contaminati con altre razze”.
Da li in poi gli zingari non verranno solo sterminati e sfruttati nei campi di concentramento, non verranno solo sepolti vivi, cosicché, come racconta uno dei sopravvissuti, un sinto bresciano: ”vedere ancora dopo ore e ore, mentre il sole sorgeva, come la terra pulsava e fremeva per via delle anime ancora non liberate”. Per via del sangue puro vengono usati come delle cavie negli esperimenti tremendi, senza anestesie e senza la minima pietà. Ahimè, tante delle scoperte scientifiche che oggi godiamo sono dovute a quei esperimenti terrificanti sui corpi vivi dei sinti e rom, costretti a bere acqua del mare fino allo svenimento, di iniezioni di liquidi corrosivi nel sangue, per constatare la perdurata della sopravivenza ariana. Vederli decadere a rilento senza nemmeno sterpitare per paura, solo piangere in silenzio fino allo spegnimento.
Gli ariani non ariani...
Ancora oggi ai nomadi non viene riconosciuto, tra altro, l’inserimento nei contesti residenziali, lavorativi e sanitari, e nemmeno riconosciuto lo status di minoranza linguistica. Come mille anni fa, diversamente dai loro cugini di sofferenza, gli ebrei, manca una storia scritta, preferendo quella orale, e manca uno stato, preferendo forse la libertà assoluta. Sicuramente pagano caro la loro indipendenza in una società che li vorrebbe schedati, documentati, verificati... li vorrebbe fissi, come il chiodo e come la sua maledizione. Ma perché spesso costretti a stare fermi, o spesso costretti a muoversi, secondo le volontà dei gagé, sono in movimento con lo spirito. Camminando e scorrazzando,cantando e ballando, e sperando.
Sono liberi, anime limpide, dolci e umili. Così come si esprimeva il poeta sinto bolzanino Vittorio Pasquale Mayer, il grande Spatzo, che nella lingua sinta sta per “uccello, passero”. Nato il 1927 ad Appiano sulla Strada del Vino, da padre siciliano e da madre tedesca di etnia sinta, Giovanna Mayer, che insieme alla figlia, Edvige, morirono in un campo di concentramento nazista. Sopravvisse nascondendo le sue origini e collaborando con i partigiani.
E’ un grande vantaggio che noi oggi possiamo ricordarlo evocando i suoi versi nella poesia “Sono un sinto”:
Sono un Sinto
vivo in carcere
solo nel mio dolore
Bevo la luce del sole….…
Con le lacrime ho scritto
sulle ali di una rondine:
rendimi la mia libera vita.
Che io possa morire
sotto un piccolo pino
come un Sinto.
Il poeta sinto si è spento il 18 maggio 2005, ma le sue poesie rimasero qui, galleggiando dentro una memoria da rivalutare. Ci servono,così come disse, il personaggio di Massimo Triosi nel film “Il postino”, disinvoltamente, a Neruda: “La poesia non è di chi la scrive, ma è di chi gli serve”.
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