Culture | Salto Weekend

Mapuche vs Benetton

E. Mazzi nella mostra SILVER RIGHTS denuncia il ruolo di Benetton nelle politiche colonialiste che hanno logorato i Mapuche. Si è davvero liber* nel raccontare la lotta?
Foto4
Foto: Tiberio Sorvillo

Quella dei Mapuche è una questione di cui non si sente spesso parlare sebbene la sua attualità si protragga dall’Ottocento. Prima della nascita degli stati nazionali di Cile e Argentina, al cosiddetto “popolo della terra” (Che “popolo”, Mapu “della terra”) originario del Cile centrale e del sud dell’Argentina era stata ufficialmente riconosciuta l’autonomia con la proclamazione del regno di Araucania a sud del rio Bìo-bío. La fine dell’indipendenza dei Mapuche fu segnata da una parte dall’occupazione cilena dell’Araucania chiamata dalle istituzioni cilene “pacificazione dell’Araucania”, dall’altra dalla guerra del deserto, eventi, questi ultimi, che sanciscono non solo la fine dell’autonomia territoriale, ma anche il furto delle terre, la segregazione dei Mapuche in riserve indigene, l’inizio di una migrazione urbana. Negli anni le politiche di colonizzazione si sono trasformate vedendo l’entrata in scena di nuovi soggetti: insieme agli stati, i privati hanno cominciato a essere impegnati in quella che sembra una partita di Risiko che prevede compravendite di terre altrui e concessioni volte a pulire l’immagine.

 

Tra i protagonisti di quella che potrebbe essere definita una colonizzazione aziendale, c’è una famiglia italiana che dell’interculturalità, delle diversità e dei diritti (certo, non quelli dei popoli indigeni e nemmeno quelli dei lavoratori, vedi United victims of Benetton) ha fatto la sua bandiera: i Benetton. Nel 1991, per 50 milioni di dollari Benetton diventa proprietaria della Compañía de Tierras Sud Argentina entrando in possesso di circa 900mila ettari di terreno che, per avere un ordine di comparazione, equivalgono alla superficie delle Marche: in un sol colpo i Benetton diventano i più grandi proprietari terrieri della Patagonia. I latifondi sono trasformati da Benetton in pascolo per 260mila pecore da lana e 16mila bovini da carne e in monocolture di pini da legna ad alto rendimento. Questo passaggio di proprietà ha costretto intere comunità ad abbandonare le loro case perché circondate dai possedimenti di Benetton che impedisce loro di accedere all’acqua dei fiumi, possibilità che invece era garantita fino all’arrivo degli italiani. Sebbene la diaspora sia stata per alcuni inevitabile, i Mapuche si sono contraddistinti e continuano a contraddistinguersi per la forza della loro resistenza: anche se minacciati, aggrediti e costretti allo sgombero dalla Gendarmeria nazionale argentina e dalle milizie private di Benetton, molti Mapuche continuano ad abbattere il filo spinato che delimita la proprietà, a recuperare i terreni e a sabotare gli allevamenti. In questa lotta impari, Benetton usa anche le armi del benefattore e della disinformazione: alla critica avanzata dal premio Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel mittente di una lettera destinata ai Benetton dove scrive che “quando si toglie la terra ai popoli nativi li si condanna a morte, li si riduce alla miseria e all’oblio”, Benetton risponde offrendo alle comunità indigene della provincia di Chubut circa 7500 ettari, offerta, quest’ultima, rifiutata dai Mapuche sia per la scarsa qualità della terra ritenuta non buona alla coltivazione, sia per il paradosso di Benetton di donare qualcosa che non gli appartiene. Tempio di una narrazione colonialista della storia è invece il Museo Leleque, voluto dal collezionista Pablo Korchenewski e Carlo Benetton e aperto nel 2000 a 20 km dal comune di El Maìten, sulle terre della Compañía. Organizzato in sale tematizzate, il museo di stampo antropologico liquida il popolo mapuche come estinto invece che vivo e attivo e non lo inserisce tra i popoli nativi dell’Argentina, ma del Cile. Questa posizione riflette il pensiero dello storico Rodolfo Casamiquela, conosciuto per le sue avversità al popolo mapuche e coinvolto nell’intero progetto del museo.

 

Quello del Museo Leleque non è l’unico rapporto che Benetton ha con il mondo dell’arte, basti pensare, infatti, che nel 2014 Artnet News, la piattaforma di informazione dedicata al mercato dell’arte, ha inserito Luciano Benetton tra i collezionisti d’arte più innovativi a livello nazionale. Ad attirare l’attenzione di Artnet è “Imago Mundi”, la collezione che ha come obiettivo la costruzione di un ritratto delle culture del mondo attraverso una raccolta di opere provenienti da tutti i paesi e accumulate dal formato 10 x 12 cm. Sul sito ufficiale della collezione, Luciano Benetton dichiara: “Quando vado in un paese che non conosco, oltre a degli appoggi e a delle informazioni, cerco di avere un rapporto di ascolto, così che siano loro [le popolazioni locali] a dirmi chi sono. […] Io devo essere coinvolto con la loro cultura, poi cercare di fondere eventualmente i miei interessi con i loro interessi”. Nei panni del collezionista d’arte, l’imprenditore coinvolto nella questione dei Mapuche si mostra in ascolto delle popolazioni locali, ma il dubbio che si tratti di una posizione di facciata sembra quantomeno legittimo. Data l’implicazione di Benetton nel mondo dell’arte contemporanea italiana, appare lecito porsi delle domande sulla reale possibilità di denunciare le azioni di Benetton quando il linguaggio di critica è quello artistico. A tal proposito, l’esperienza di Elena Mazzi – la cui mostra “SILVER RIGHTS”, che si concentra sulle operazioni di logoramento effettuate dalle forze colonizzatrici ai danni delle popolazioni indigene del Sud America e che era esposta presso ar/ge kunst fino al 31 luglio – è in grado di fornire delle risposte.

 

salto.bz: Elena, hai avuto la possibilità di visitare il Museo di Leleque: in che modo il popolo mapuche è assente?

Elena Mazzi: All’interno del Museo Leleque i Mapuche vengono identificati come popolazione indigena cilena; “sono cileni, non sono argentini”, afferma infatti l’antropologo Rodolfo Casamiquela, chiamato dalla famiglia Benetton a curare l’impianto museale. Al contrario, è storicamente provato che i Mapuche non consideravano Cile e Argentina due nazioni diverse, anzi si muovevano – e così avviene anche oggi – liberamente in quella che loro considerano semplicemente Mapu, terra. Il giorno dell’inaugurazione del museo, i Mapuche erano a manifestare fuori dall’ingresso, con striscioni che affermavano: “Noi siamo qui, siamo vivi”. Sono stati completamente ignorati da televisioni locali, nazionali e internazionali, che hanno preferito non guardare.

La tua mostra SILVER RIGHTS è stata realizzata in collaborazione con il capo spirituale, argentiere, attivista mapuche Mauro Millán. Qual è la sua posizione rispetto alla responsabilità dei Benetton nel confinamento del suo popolo?

Mauro Millán è uno dei principali fondatori della Organizaciòn de Comunidades Mapuche-Tehuelche 11 de Octubre, che dal 1990 si dedica al recupero dei territori per raggiungere l’autonomia o l’autodeterminazione. Nel 2002 Mauro Millán si fa portavoce dell’organizzazione nel difendere Rosa e Atilio Curiñanco, coppia di anziani mapuche sgomberati dalla polizia su richiesta della Compañía de Tierras (famiglia Benetton) che l’ha denunciata per occupazione di un terreno di “sua proprietà”. Come scrivono Monica Zornetta e Pericle Camuffo nel loro libro “Alla fine del mondo. La vera storia dei Benetton in Patagonia”, “Lo sgombero avviene in modo talmente aggressivo che i due sono costretti ad andare via in fretta, senza nemmeno il tempo di spiegare le loro ragioni. L’indignazione e la rabbia delle associazioni non governative per il comportamento dei Benetton rimbalzano in breve tempo sulla stampa internazionale, aprono uno squarcio inaspettato nell’immagine patinata della multinazionale italiana e costringono un premio Nobel per la Pace a prendere le parti dei due Mapuche e di un popolo maltrattato e discriminato”.
Da quegli anni Mauro è venuto in Italia diverse volte a raccontare la sua storia e del suo popolo, sostenuto prevalentemente dall’associazione Ya Basta! Êdî Bese!. Sarà solo dopo anni che la famiglia Curiñanco vincerà la causa contro l’azienda trevigiana. Ma gli sgomberi sono continuati e Mauro, sempre presente, va di comunità in comunità ad ascoltare e sostenere centinaia di persone.


Nella tua esposizione trovano posto anche i gioielli. La fabbricazione di gioielli di argento fa parte della cultura dei Mapuche che erano soliti fondere le monete d’argento ottenute attraverso negoziati commerciali con gli spagnoli per ottenere la materia prima. Tale tradizione definisce i Mapuche come un popolo abile in termini commerciali.
Spesso i gioielli vengono però esposti nei musei come oggetti di folclore. Si tratta forse di una forma di vittimizzazione delle popolazioni locali?

Prima di tutto, l’atto di esporre i gioielli in contesti museali va contro la volontà del popolo mapuche, che solitamente seppellisce i gioielli insieme alla persona a cui sono appartenuti in vita. Questo significa che i gioielli sono stati rubati e trafugati da tombe, in momenti di guerra e genocidio, e che tutt’oggi, nonostante le continue richieste da parte del popolo originario, non vengono restituiti (così come altri manufatti o resti umani, ancora evidentemente considerati poco importanti da parte degli stati attuali).

La museificazione dei gioielli non rischia di fare della gioielleria un’arte morta? La scelta di non inserirli in teche ma di appenderli restituendo loro una dimensioni tridimensionale ha uno scopo preciso?

In SILVER RIGHTS ho lavorato sempre in dialogo con Mauro Millán, per provare a narrare una dimensione dell’argenteria differente: i gioielli sono visibili da entrambi i lati, fronte e retro, e sono appesi in maniera fluttuante e leggera, vicini allo sguardo e ai corpi dello spettatore. Sono vivi, e raccontano la loro storia attraverso la simbologia su di essi incisa. Grazie all’allestimento di Studio Gisto, ci siamo voluti distaccare dalle pareti del museo e dal classico impianto museale per essere indipendenti dallo spazio espositivo, liberi di accogliere il pubblico sempre più vicino all’opera.

 

La tua è una mostra dai forti connotati politici e critica la presenza di alcuni colossi mondiali, tra cui i Benetton, arrivati in Argentina per aumentare i lori guadagni a scapito delle popolazioni locali e del territorio. Tra gli episodi che hai deciso di ricordare, c’è l’investimento voluto dal governo della provincia del Chubut di una nuova stazione sciistica con 19 piste e un hotel a El Maìten. All’opera, sponsorizzata in favore del turismo internazionale, e alla deforestazione dei crinali di Cerro Azul necessaria per installare gli impianti si è opposta la comunità mapuche Cañio.
Storie come questa mostrano la determinazione e l’orgoglio delle piccole comunità dichiarate da alcuni estinte. Cosa hai trovato in termini di resistenza entrando in contatto con i Mapuche?

I Mapuche sono un popolo determinato, forte e orgoglioso della propria storia, che crede nella libertà sopra ogni cosa. Questo è ciò che mi aveva particolarmente colpito nel 2012, anno del mio primo viaggio in Argentina e del mio primo incontro con diversi membri della comunità. Chiunque si sarebbe arreso di fronte a multinazionali di questo calibro, ma loro no. I Mapuche stanno dando la vita per i loro principi, li vivono e li mettono in pratica ogni giorno. Senza il loro sforzo e impegno, la Patagonia sarebbe un territorio già completamente devastato sia a livello paesaggistico che culturale. Non abbiamo che da imparare dal loro legame con la terra che qui in occidente abbiamo perduto nel giro di pochi decenni in nome di uno stile di vita che presto ci ucciderà.

Studiando le implicazioni di Benetton nella questione mapuche, mi sono venute in mente le campagne pubblicitarie di Oliviero Toscani, dove attraverso le immagini si vuole trasmettere valori come l’antirazzismo. Mi è venuta in mente anche questa citazione di Toscani: “Il conformismo è il peggior nemico della creatività. Chiunque sia incapace di prendere dei rischi non può essere creativo”. Bene, che rischi si è preso il creativo Toscani nella faccenda Museo di Leleque? Sai se e in che misura ha collaborato alla sua creazione?

Non so se Oliviero Toscani abbia partecipato direttamente alla creazione del museo. Quello che so è che il museo ha quattro stanze, ognuna con un “colors of Benetton”: c’è la stanza gialla, la stanza rossa, la stanza verde e la stanza blu. In alcune stanze ci sono fotografie stile “COLORS”, la celebre rivista diretta anche da Oliviero Toscani negli anni ’90/’00. Qui, ritratti di volti indigeni erano all’ordine del giorno, scattati in pose semplici ma al contempo accattivanti, ricalcando, come afferma Luciano Benetton nel 2008 rispondendo a Dario Di Vico sul “Corriere della Sera”, un’idea di “capitalismo creativo, sensibile alle esigenze dei meno fortunati del mondo”.
Quello che so è che vi è un catalogo edito dalla famiglia Benetton all’interno del museo che raccoglie molti scatti del fotografo Mauro Fregnan, allievo di Oliviero Toscani, ricalcandone lo stile.

 

Il fatto che Benetton sia inserita nel mondo dell’arte contemporanea, ha fatto sì che tu trovassi qualche difficoltà nel promuovere la tua mostra?

Attualmente no, non per quel che riguarda la promozione della mostra. Ma sicuramente ha influito in precedenza, in fase di reperimento fondi. È dal 2012 che provo a informare curatori e curatrici italian* e stranier* e ad applicare a bandi per realizzare questo progetto. Ci sono voluti otto anni prima che qualcuno credesse davvero in SILVER RIGHTS. Non sarò mai abbastanza grata a Emanuele Guidi e ad ar/ge kunst con cui siamo riusciti a vincere il premio Italian Council, per questo ringrazio anche la Direzione generale creatività contemporanea.

Pensi che potrebbe essere possibile esporre qualcosa di simile a SILVER RIGHTS a Treviso? A Ponzano Veneto (in provincia di Treviso) c’è infatti la sede centrale di Benetton Group…

Sono venuta a conoscenza della questione Benetton vs Mapuche a Treviso nel 2011 mentre facevo ricerca per un’altra opera che aveva a che fare con una nuova proposta di legge della Lega Nord sulle insegne commerciali scritte non in caratteri latini (se ne proponeva la rimozione). Parlando di multiculturalità a Treviso, mi sono trovata per forza di cose ad approfondire l’etica Benetton sul tema e sono venuta a conoscenza della questione. Ho ampliato la ricerca iniziale proponendo di esporre un documentario realizzato da un regista anglo-argentino sulla vicenda dello sgombero della famiglia Curiñanco. Ho trovato porte chiuse anche nelle più piccole associazioni culturali: tutto il mondo trevigiano o quasi veniva infatti, anche se in piccolo, finanziato dalla Fondazione Benetton. Un monopolio culturale che in questo caso è arrivato alla censura.

 

Nel mondo dell’arte contemporanea si può parlare di censura? Magari attraverso azioni indirette come non trovare spazi dove esporre…

Sì, certo. Non si trovano spazi dove esporre, come nel caso sopracitato (dove alla fine ho deciso di esporre il documentario all’interno degli spazi dell’associazione Ya Basta!, l’unica ad avermi accolto), o si decide di allontanarsi dalla questione per non esserne coinvolti, rifiutando di scrivere testi, non approvandone altri, delegando responsabilità o emarginando l’artista. Ma c’è anche chi apprezza la denuncia, la presa di posizione, la libertà d’espressione dell’artista, e ne supporta le azioni. Del resto come in ogni altro campo.

La tua mostra non denuncia solo la posizione di Benetton, ma in quanto unica realtà italiana nominata mi sembra giusto soffermarcisi. Secondo te, c’è un fatto che determina più di tutti l’illeceità delle sue azioni?

Come ricordano sempre Zornetta e Camuffo, “dietro l’azienda trevigiana ci sono storie di sfruttamento, violazione dei diritti umani, minacce, ricatti, povertà e corruzione: situazioni alla cui eliminazione il gruppo dice da sempre di voler contribuire”. Oltre a ciò, a me personalmente colpisce anche l’utilizzo dell’immagine nelle campagne pubblicitarie e visive, campagne che hanno avvicinato un pubblico sensibile e creativo, manipolandone lo spirito critico. Non parlo solo del grande pubblico, ma anche degli operatori culturali stessi (artisti, curatori e critici), intrappolati in questa superficialità visiva. Cito ad esempio il progetto “Imago Mundi”, progetto ideato nel 2008 dallo stesso Luciano Benetton e realizzato dalla Fondazione Benetton Studi e Ricerche di cui è presidente. A ogni artista che intende partecipare gratuitamente al progetto viene fornita una tela di 10 x 12 cm sulla quale può raccontare se stesso oppure il paese e la cultura a cui appartiene o, ancora, le problematiche che lo interessano.


Queste piccole e curiose tessere colorate – a oggi quasi 30mila – una volta inserite in una struttura progettata dall’architetto Tobia Scarpa compongono un gigantesco e attraente mosaico che viene trasportato in giro per il mondo per essere esposto in musei, gallerie e sale importanti, diventando collezione privata dell’imprenditore. Lo scopo dell’operazione è assai ambizioso: “Valorizzare le diversità, nella convinzione che siano le differenze a impreziosire il mondo” e che l’arte sia una sorta di collante “tra culture ed etnie differenti, che possono convivere pacificamente in uno stesso territorio”, afferma Giulia Basso, in un articolo pubblicato sul “Il Piccolo” di Trieste nel 2016, anno in cui “Imago Mundi” è arrivata in città. Un impianto standardizzato, un’operazione di marketing che non valorizza l’operato artistico, ma che agisce strategicamente nell’interesse personale, secondo le logiche stesse perseguite dall’azienda: mostrare valori che non vengono messi in atto nella realtà dei fatti.

Per concludere, dove andrà SILVER RIGHTS nei prossimi mesi?

SILVER RIGHTS proseguirà il suo viaggio in Svezia, alla Södertälje Konsthall, spazio non-profit nella periferia di Stoccolma, in un quartiere prevalentemente cileno. In seguito sarà presentato alla BIENALSUR all’interno del Museo Udaondo, museo di impianto coloniale che vuole però mettere in discussione il suo attuale allestimento, ripensandolo totalmente, e inglobando in SILVER RIGHTS una serie di gioielli mapuche abbandonati nei depositi del museo, invitando la comunità a studiarli con gli operatori museali, così da ridargli vita e diffonderne la storia e i valori. Infine entreranno in collezione permanente del Castello di Rivoli di Torino.