Arrivano a migliaia, a decine di migliaia anzi. Arrivano da tutta l'Etiopia, ogni anno, il 28 dicembre. Arrivano per raggiungere un pugno di capanne del sud del paese. La località si chiama Kulubi e sorge lungo la strada che collega la capitale Addis Abeba con la vicina città di Harar. Una strada sterrata si snoda sui fianchi di una collina sulla sommità della quale sorge una chiesa dedicata all'arcangelo Gabriele. È quella la meta del grande pellegrinaggio. Un rito religioso che è occasione di festa grande, di incontro, di mercato.
Arrivano con ogni mezzo, escluse le auto private che in Etiopia sono privilegio costoso di qualche abitante delle città. Arrivano con i mini autobus collettivi stracarichi sino all'inverosimile, che portano sul tetto merci di ogni tipo, dalle fascine di legno d'eucalipto alle povere galline legate vive ai montanti. Arrivano in sella agli asinelli o tirandosi dietro un dromedario stracarico di merce. Arrivano a piedi. In Etiopia, soprattutto nella zona degli altipiani che si estendono ben oltre i 3000 m di quota dove si vive e si coltiva regolarmente, il mezzo più comune per andare da un luogo all'altro sono le gambe ben allenate.
Il pellegrinaggio dura ininterrottamente per un giorno e una notte. Avvolti nei mantelli bianchi i fedeli salgono verso la chiesa per assistere alle celebrazioni di rito copto ortodosso. Pregano, toccano con la fronte e con le mani i cancelli che permettono di accedere alla lunga scalinata che porta verso l'edificio religioso. Poi ridiscendono immergendosi in un mare colorato di umanità, di venditori che decantano con l'altoparlante i loro prodotti: oggetti religiosi, T-shirt che celebrano l'evento, capre, pecore e mucche, l'immancabile Khat, la pianta dalle virtù euforizzanti, che viene estensivamente coltivata proprio in quella regione, esportata in tutto il Corno d'Africa e nella penisola arabica. Le foglie, masticate lungo, sono la droga dei poveri , legale in un paese dove quasi nessuno può permettersi quelle dei ricchi.
Non molti tra i pellegrini che salgono verso la chiesa di San Gabriele sanno che ad essa è legato un ricordo storico che riguarda, anche se in modo non certo felice, anche noi italiani. Fu costruita, alla fine dell'ottocento, per celebrare una grande vittoria militare ottenuta dagli etiopici proprio nei confronti dell'invasore italiano della battaglia di Adua.
A volere l'edificazione della chiesa un personaggio interessante della storia etiopica: Rass Maconnen, cui può essere dedicata qualche riga.
Il Ras che sconfisse gli italiani.
Primo cugino dell'imperatore Menelik che nella seconda metà dell'ottocento unificò il paese, Ras Maconnen fu nominato governatore della provincia meridionale di Harar dove si stabilì. Sul finire del 1889 fu il primo esponente della famiglia imperiale etiopica a venire in missione diplomatica in Italia per completare gli accordi del trattato di Uccialli che avrebbe dovuto dirimere tutte le controversie tra gli italiani insediatisi sulle coste del Mar Rosso e il regno etiope. Così non fu e la foja espansionistica e le immotivate ambizioni di grande potenza dell'Italietta postrisorgimentale condussero, qualche anno dopo, allo scoppio delle ostilità.
Una follia pagata a caro prezzo, il 1 marzo del 1896, quando le truppe italiane, mandate allo sbaraglio dalla follia politica del presidente del consiglio, l'ex garibaldino Francesco Crispi, con la connivenza dei vertici militari furono letteralmente massacrate dall'esercito etiope. Non vi è concordanza sulle cifre della disfatta. Tra morti, feriti e prigionieri l'esercito italiano perse comunque non meno di 10.000 uomini. Fu un trauma nazionale. Inaugurando una luminosa tradizione che si sarebbe protratta sino all'altra storica disfatta di Caporetto, il generale che aveva mandato al macello i suoi uomini, Oreste Baratieri, imputò la sconfitta alla viltà dei suoi soldati. Crispi dovette dimettersi e per un po' le smanie colonialiste dovettero essere rinfoderate. Tra i generali che avevano condotto l'esercito etiope la vittoria c'era anche Ras Maconnen, che, tornato nella sua provincia decise di costruire la chiesa di Kulubi, per ringraziare San Gabriele di aver protetto e portato alla vittoria i suoi uomini. La vittoria etiope di Adua è entrata nella storia come la prima grande sconfitta di un esercito europeo in Africa, e nell'identità collettiva etiope come uno degli elementi unificanti. Ogni anno il 7 marzo è ancora oggi festa nazionale.
L'impero che durò solo cinque anni.
Quarant'anni dopo l'Italia fascista si apprestò a lavare l'onta di quella sanguinosa sconfitta, aggredendo lo Stato sovrano dell'Etiopia, che faceva parte tra l'altro della Società delle Nazioni. Questa volta l'impresa fu preparata a dovere e messa in atto con dispendio enorme di forze, di mezzi modernissimi, non disdegnando l'uso criminale dei gas tossici scaricati sui poveri etiopici dall'aviazione italiana. Nel 1936 l'imperatore Hailè Selassiè, figlio, va detto, di quel Ras Maconnen che aveva battuto gli italiani ad Adua, fu costretto a lasciare Addis Abeba. Vittoria effimera e di breve durata quella italiana, guastata tra l'altro da una ostinata guerriglia che fu repressa con metodi brutali e disumani. Nel maggio del 1941 cessava la resistenza delle truppe italiane di fronte all'assedio condotto dall'esercito inglese con l'appoggio della guerriglia etiopica. Di quella sciagurata avventura restano ormai, nell'Etiopia di oggi, ben poche tracce. Alcuni edifici di stile littorio nei centri storici delle città qualche strada costruita in epoca fascista per collegare meglio le varie parti di uno sterminato territorio. A Gondar, città a nord di Addis Abeba, le insegne in lingua italiana che indicano un cinema e una piazza sono tra i pochi segni di un passato ormai dimenticato.
Paradossalmente ci sono più ricordi di quelle imprese a Bolzano che nei luoghi dove furono compiute. Nel quartiere monumentale fatto costruire da Mussolini, dietro al Monumento della Vittoria, si erge una colonna con incisi i nomi delle imprese belliche fasciste tra cui, per l'appunto, quella d'Etiopia. Anche le strade che si dipartono dalla piazza portano i nomi dei caduti in quella guerra il sacerdote ultranazionalista Reginaldo Giuliani, l'aviatore e deputato fascista Antonio Locatelli. Poco lontano una buona parte delle strutture sanitarie bolzanini si affacciano sulla via intitolata all'Amba Alagi, la montagna dove fu consumata l'ultima resistenza degli italiani agli inglesi. A Brunico il ricordo delle imprese del contingente alpino durante la guerra d'Etiopia fu scolpito nella pietra di un monumento, oggetto, nel tempo, di reiterati attentati dinamitardi.
Se all'epoca della sconfitta di Adua il Tirolo era ancora preso nell'impero austroungarico, ben diversa fu la situazione ai tempi della guerra di conquista dell'Etiopia del 1936, tra l'altro decisa e solennemente annunciata da Mussolini proprio nell'estate di quell'anno durante il suo soggiorno in Alto Adige. I sudtirolesi, al pari degli italiani immigrati nel frattempo in provincia, furono chiamati alla mobilitazione. Quel che avvenne in quei mesi, con le diserzioni e i tentativi di fuga, è stato raccontato più volte. Citiamo, tra gli altri, il saggio dello storico austriaco Gerald Steinacher e il quaderno curato da Andrea di Michele per gli annali di Storia e Regione.
Tra le tante vicende rimaste sepolte negli archivi anche quella, ad esempio, dal soldato Johann Kircher, disertore dal reggimento di fanteria Venezia, passato a combattere con i ribelli etiopici contro l'invasore italiano. Qualche cartolina da lui indirizzata alla patria lontana fu trovata in una trincea del dicembre del 1936 durante le operazioni di repressione della guerriglia.
Sono ricordi lontani, ormai quasi dimenticati, di una storia antica come la lunga strada polverosa che le decine di migliaia di pellegrini ripercorrono a piedi, ogni anno, il 28 dicembre, mentre salgono verso la chiesa di San Gabriele.
* Le fotografie di Tiziana Antonello sono state scattate il 28 dicembre 2019 a Kulubi e il 4 gennaio 2020 a Gondar.