“A scuola di futuro”
salto.bz: Roberto Poli, docente di Sociologia a Trento, titolare della cattedra Unesco per i sistemi anticipanti e responsabile del master in previsione sociale, nonché presidente dell’Afi, associazione futuristi italiani che il 23 e 24 maggio si ritrova per il suo III incontro a Roma. Come si cura l’ansia da futuro che affligge la società contemporanea?
Roberto Poli: Ci sono due-tre aspetti da considerare al riguardo. La caratteristica fondamentale della nostra epoca è l’incertezza. Una variabile che continua a crescere, creando disorientamento. Non ci sono punti fermi e da ciò nasce la paura. Non è un fenomeno nuovo, esiste da diversi decenni, ma non era mai giunti ai livelli attuali, assai visibili.
Si parla spesso della paura associata al marketing politico. Siamo ad un punto critico dell’incertezza?
Ci avviciniamo. Le cose non solo cambiano, ma lo fanno a ritmi via via più veloci. La trama è sempre più sincopata e ci sono delle conseguenze. La prima è che le informazioni che ricaviamo dal passato non sono più sufficienti per dire cosa bisogna fare.
L’incertezza domina la nostra epoca. Le cose cambiano a ritmi sempre più veloci. E le informazioni dal passato non sono più sufficienti per capire cosa fare
Occorre guardare avanti?
Sì, ma in modo scientifico. Gli studi di futuro servono per capire cosa potrebbe succedere. Sono una componente fondamentale dell’analisi: se è vero che è utile guardare all’indietro, lo è anche in avanti. Da questa lettura di passato e futuro si torna poi al presente, in modo da avere basi esaustive per prendere le decisioni migliori.
Come avvengono le previsioni?
Si tratta, possiamo dire, di visualizzazioni di futuro. Le previsioni in senso letterale servono per poche cose e raramente ci azzeccano. Per le situazioni incerte occorre passare dall’idea di futuro all’idea di futuri al plurale. Bisogna intercettare le variazioni, prepararsi ad una serie di scenari. Non farsi sorprendere delle sorprese. Ridurre gli imprevisti.
Può fare un esempio concreto?
Consideriamo i trend visibili del mondo attuale. Ad esempio l’aumento della popolazione globale: le stime Onu dicono che passeremo da 7,5 miliardi di abitanti di oggi agli 11,2 a fine secolo. Un incremento micidiale, di 4 miliardi di persone in 80 anni, a cui serviranno cibo, vestiti, casa, scuola e avranno necessità ulteriori. O l’invecchiamento, che farà sì che in Italia nel 2050 una persona su 7 avrà più di 80 anni e che gli over 60 anni saranno il 40% della popolazione. Questi sono trend forti, impossibili da cambiare. Possiamo però prepararci in tempo, lavorare a soluzioni innovative per farvi fronte.
L’ansia si cura con l’esercizio di futuro. Leggere i trend, dall’aumento della popolazione mondiale all’invecchiamento, fino al cambiamento climatico. Per prendere le decisioni giuste
E gli scenari aperti?
Ci sono altri trend per i quali esiste l’idea di poterli cambiare, di far deflettere il futuro. Sono insomma aperti al loro esito. Il futuro del lavoro è così: nessuno sa come si svilupperà esattamente. Dipende dall’evoluzione tecnologica, dalle scelte degli Stati. C’è il cambiamento climatico, una delle grandi evoluzioni in corso, per la quale si sta esaurendo il tempo per intervenire e più si aspetta il costo diventa più elevato. Se nei primi due casi l’umanità può solo vedere e prepararsi, negli altri, dove i cambiamenti sono aperti, può provare a influenzarli. È importante distinguere perché le competenze sul tipo di trend e le caratteristiche mi fanno capire che tipo di decisioni devo prendere.
Torna la prima domanda, come si riduce l’ansia?
La risposta sta nell’esercizio di futuro. A cui come dicevo sono legate decisioni che possono cambiare.
Gli studi di futuro iniziano negli anni '50, in Usa, Europa, Urss. In Italia sono stati reintrodotti una dozzina di anni fa. E l'associazione dei futuristi italiani è nata dai miei ex allievi del master
Gli studi di previsione sociale hanno già una loro storia, è vero?
È corretto: nascono negli anni Cinquanta, dopo la seconda guerra mondiale, negli Stati uniti, in Europa, in particolare Francia e Austria, in Unione sovietica. La situazione data dal contesto militare e la necessità di gestire l’incertezza ne hanno generato le basi. In Italia sono stati reintrodotti una dozzina di anni fa, per mia iniziativa, nel corso di previsione sociale. All’università e nel master che è rivolto a persone già nel mondo del lavoro, imprenditori, manager, tecnici, funzionari, che sanno cosa significa prendere decisioni. A sua volta l’associazione dei futuristi italiani è nata su spunto dei miei ex allievi.
Quella del futurista, da non confondere con il movimento artistico, o del futurologo, è una professione?
Il nostro intento è arrivare al riconoscimento come professione di chi compie in modo scientifico studi di futuro. Una nuova competenza, da separare da quanti durante le crisi si improvvisano. In questo senso è apprezzato l’interesse del Cnel, il comitato nazionale per l’economia e il lavoro, ente costituzionale, che ha coorganizzato ospita nella sua sede il terzo incontro dell’associazione. Nata nel dicembre 2018, è già riuscita a promuovere un appuntamento di peso. Non succede tutti i giorni, è già un riconoscimento per l’apporto alle politiche pubbliche nazionali e locali. Un messaggio chiaro, sulla necessità di usare le nostre metodologie.
Si apre la strada anche per un ministero del futuro?
Non è fantapolitica, esiste già un tale dicastero nella comunità araba, negli Emirati arabi (per l’intelligenza artificiale, ndr). E ciò che c’è già in modo diffuso è la partecipazione dei provvisori negli staff dei governi di Regno Unito, Germania, Canada e via dicendo. In Italia ancora no, servirebbe un primo assaggio per il governo nazionale e gli esecutivi regionali, anche per i Comuni. Per affiancare i decisori.
Quella dell’anticipazione è una scienza e deve diventare una professione. Il terzo incontro dei futuristi italiani è ospitato dal Cnel a Roma: un riconoscimento. La strada è affiancare i decisori, anche con il ministero del futuro, come negli Emirati arabi
Come si fa nel concreto un’analisi di scenario?
Le premesse sono la forma mentis, l’attitudine giusta, a seguire il training, la preparazione. Poi ci sono i metodi. Mentre il forecast, la previsione tradizionale, quella che sentiamo per il Pil, nel 95% dei casi fallisce, il foresight è diverso. Si tratta della visualizzazione dei futuri possibili, in più direzioni. Ci sono alcuni metodi per tracciare gli scenari, quello dei tre orizzonti, oppure l’analisi causale-stratificata. Una batteria di metodologie che aiuta. Ovviamente si parte da una raccolta dati di base, ma da lì c’è tanto altro.
L’obiettivo è tracciare la varietà di “dimensioni parallele” del futuro?
Si può usare questo termine, ma il nostro lavoro è soprattutto darsi il coraggio, l’autorizzazione per provare a vedere su basi scientifiche le evoluzioni possibili. Occorre però avere finestre temporali lunghe, i 3 anni ad esempio non servono, sono già l’oggi. Solo sui 20 anni possiamo prepararci, fare qualcosa.
Il futuro è spesso associato alla distopia, ai contorni angoscianti nei ritratti di libri, film o serie tv come Black Mirror. C’è uno spazio pienamente umano per il tempo a venire?
Il ventunesimo secolo è diverso dai precedenti e richiedere di adeguarsi alle sue sfide. Adesso ci vuole una nuova alfabetizzazione, una future literacy, che metta in grado le persone di comprendere i costi, gli svantaggi, ma anche le potenzialità dei nuovi scenari. Alcune competenze minime devono essere di tutti e per rendere questo possibile bisogna partire dalle scuole. All’università già lavoriamo con gli istituti per i laboratori di futuro in classe. A Trento, Milano, nel Piemonte e nel Friuli.
A scuola facciamo laboratori: sono fondamentali, occorre che tutti abbiamo una future literacy, un’alfabetizzazione di futuro
A lezione di cambiamento?
Le evoluzioni ci sono sempre state, fanno parte della storia dell’umanità. Ma vanno gestite, occorre fare delle scelte. Guardiamo alla via della Seta, progetto che può fallire oppure no, per l’Europa io credo si tratti di una scelta obbligata. Ma in questo caso la scelta è se rimanere isolati o partecipare.
Anche la dimensione locale, vedi il caso del Trentino Alto Adige, ha un ruolo nelle profonde modificazioni in corso?
Trento e Bolzano sono realtà piccole, però si possono ritagliare uno spazio. Assistiamo alla nascita delle megacity, in Asia, Africa agglomerati urbani giganti che attirano sempre più persone dalle campagne. Mentre fino al 2005 i chilometri quadrati di città sul pianeta erano un milione, nel 2050 saranno 2,5 milioni. Un’enormità. Tuttavia al megatrend si accompagnano controtrend secondari. Uno di questi dice che le valli alpine si stanno ripopolando dopo decenni. Si vede in modo esplicito nel piemontese e c’è un inizio nel Friuli, segnali che può attecchire anche in regione.
In un mondo di megacity, di gigantesche città, territori piccoli come Trento e Bolzano possono attirare persone qualificate che vogliono una vita tranquilla. Le valli si ripopolano, ma occorre intercettare il fenomeno
Un ritorno in montagna?
Nelle valli arrivano nuovi cittadini, diversi. Coloro che tornano sono figure professionalizzate, con alta capacità di spesa, che cercando condizioni di vita più tranquille e possono magari con internet lavorare dalla baita, dico per estremizzare.
Per i territori quindi è un’opportunità di crescita, devono però essere ospitali?
Sì, anche realtà secondarie, come le province di Trento e Bolzano, caratterizzate da piccoli numeri, possono diventare sempre più stimolati per certe comunità di cittadini, a loro volta risorsa per la vita economica e culturale dei territori. Come? Ad esempio qualificandosi per servizi di altissimo livello. Occorre però vedere i trend e prepararsi. La sfida è diventare esplicitamente calamita. Dire: se volete venire da noi ci sono condizioni interessanti da sfruttare. Ma occorre capire e agire di conseguenza.