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Sotto la superficie dell'acqua

Lo scrittore Marco Balzano sulla storia di Curon, dimenticata dal Sudtirolo e sconosciuta nel resto d'Italia: “Ci interessa un progresso violento e antidemocratico?”.
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Foto: Instagram

Con la voce narrante di Trina, protagonista del romanzo Resto qui finalista al Premio Strega, lo scrittore e insegnante milanese Marco Balzano racconta il trauma di Curon/Graun in Alta Venosta, partendo dall'immagine cupa del campanile nel lago. Una comunità dapprima travolta dall'italianizzazione forzata del fascismo e poi sommersa dal progresso, costretta per due volte a scegliere tra restare o andare: per le opzioni frutto dell'accordo Hitler-Mussolini e, negli anni cinquanta, la realizzazione del lago artificiale di Resia da parte della Montecatini. Un racconto – lo abbiamo scritto su Salto.bz all'uscita del libro – capace di combinare il punto di vista di una contadina sudtirolese all'eterna e universale lotta tra Davide e Golia.

Salto.bz: Con Resto qui lei affronta una storia sudtirolese attribuendole una valenza universale. Come è stato approcciarsi a una storia locale – che appartiene a una terra così particolare come l'Alto Adige – per farla emergere al di fuori di quel contesto?

Marco Balzano: Non credo che uno scrittore possa mettersi a raccontare ciò che è solo un aneddoto, ciò che è esclusivamente un episodio, locale o meno che sia. Uno scrittore non può raccontare aneddoti, per quanto emblematici, drammatici, potenti possano essere. Ti metti a scrivere nel momento in cui riconosci in un fatto – magari aneddotico o locale – una metafora, ti metti a raccontare quando ci leggi la metafora. Non avrei mai raccontato la storia di quel paese, di quel campanile, se non fosse sembrato chiaro che dentro quella storia ce n'erano molte altre, la cui leggibilità era chiara.

Un racconto capace di scalare le classifiche di vendita e sfiorare la vittoria al premio Strega (è arrivato secondo dietro La ragazza con la leica di Helena Janeczek, ndr). La Lettura del Corriere della Sera ha indicato Resto qui tra i cinque libri dell'anno.

Critica e pubblico se ne sono accorti, da subito, e questo è un conforto e un incoraggiamento importante. Il primo invito che ho ricevuto è stato in val di Susa, i primi a comprare i diritti stranieri sono stati i cinesi. Una riconoscibilità, una metaforicità, quella storia ce l'ha. È una storia del rapporto difficile tra progresso e popolazione, tra progresso e paesaggio, in cui la violenza della dittatura lascia il passo a una democrazia che ha falle notevoli. Questo succede in molte altre parti del mondo.

Quando si è avvicinato a questa storia, come si è documentato?

Ho studiato tutto quello che ho potuto, partendo da una conoscenza molto scarsa dell'Alto Adige stesso. Mi sono molto animato a osservare come questa storia d'Italia non la conoscessi né da insegnante, né da persona mediamente informata, che ha passato la sua vita sui libri. Parlandone e confrontandomi con altri scrittori, giornalisti, insegnanti anche per loro era una sorta di vuoto. Mi sono messo a studiare la storia dell'Alto Adige, fino ad arrivare – come a zoomare gradualmente su Curon – a studiare tutto quello che è successo in quel paese. Dopo essermi confrontato con degli storici, ho incontrato gli ultimi testimoni.

E con loro come si è approcciato?

Dovevo arrivare a parlare con i testimoni avendo una preparazione il più solida possibile, in modo che potessi concentrarmi sull'umanità dei loro racconti: non dovevo prendere i fatti da loro, i fatti li dovevo conoscere meglio di loro. Non guardare a quei fatti solo dalla loro prospettiva, di gente colpita e travolta da quei fatti. Io che non li ho vissuti personalmente dovevo avere più prospettive: la prospettiva della Montecatini, del governo italiano, di quel periodo, del bilinguismo... e di loro che erano quelli che volevo raccontare.

Ero talmente interessato a trasformare quel luogo in un luogo reale, vero, a renderlo capace di essere anche un luogo del mondo, un luogo dell'anima, che non ho avuto paura o soggezione.

Il Sudtirolo è abituato a raccontarsi come territorio “di successo”, fortunato economicamente, che dà di sé un'immagine positiva. Una sconfitta come quella di Curon si è più restii ad affrontarla e rielaborarla. Da persona senza legami con l'Alto Adige non ha avuto timore di invadere un terreno altrui?

Non ho la percezione nei suoi tasti più dolenti che l'Alto Adige sia un territorio così raccontato, se non negli ultimissimi anni, a livello letterario. Non ci ho trovato delle cose capaci di uscire dal colore locale, o dagli anni Cinquanta al Duemila. Le eccezioni ci sono sempre, ma non fanno sistema. Sicuramente adesso si sono accesi dei riflettori sull'Alto Adige, ma non da tanto, al massimo da dieci anni se non meno. Ero talmente interessato a trasformare quel luogo in un luogo reale, vero, a renderlo capace di essere anche un luogo del mondo, un luogo dell'anima, che io non ho avuto paura, o soggezione.

Anche dopo l'uscita del libro?

L'ho avuta paradossalmente dopo che il libro è uscito, quando avevo 4-5 tappe di presentazione in Trentino-Alto Adige, e ho pensato “la gente mi dirà cosa vuoi, parla delle cose tue”. Ho avuto invece un'accoglienza calorosissima, con in media duecento persone a presentazione. Molti altoatesini sono venuti a ringraziarmi: “Grazie di aver raccontato questa storia che io, pur essendo altoatesino, non conoscevo o non mi hanno mai voluto raccontare perché era una storia troppo dolente, troppo dolorosa”. Questo è stato bellissimo.

A proposito della serata di presentazione a Curon, il periodico der Vinschger le dedica un articolo usando parole di elogio e riconoscenza: “un evento indimenticabile”, “Marco Balzano ci ha dato una voce”.

Quella serata è stata molto importante e bella. Sono salito su a Curon con delle persone a me molto care perché avevo bisogno emotivamente di avere qualcuno a fianco con cui viverla, ci sono andato con amici molto stretti. È stato il punto di arrivo di un percorso. All'inizio c'è stata diffidenza e freddezza, quando io ho chiesto a tutte queste persone di darmi una mano, di fare delle interviste, di aprirmi le loro case e i loro racconti. E lo trovo giusto – si tratta veramente di andare a rinvangare qualcosa di molto pesante – e in linea col carattere generale, che loro ci siano andati coi piedi di piombo. Lentamente questo ghiaccio si è sciolto quando il libro è andato bene, è stato in classifica per sette mesi.

C'è una riconoscenza reciproca: loro mi hanno dato una storia e io ho dato loro una voce.

Cosa è cambiato?

Loro hanno sentito che qualcuno aveva raccontato la loro storia, e si sono visti arrivare la gente negli alberghi con il libro, le centinaia di copie vendute all'ufficio di informazione turistica, le scolaresche in gita quest'estate... si sono sentiti a quel punto in una riconoscenza reciproca. Quella che ho nei loro confronti è più grande e impagabile, perché uno scrittore non può che avere un debito eterno con chi gli racconta una storia. Però mi fa piacere ci sia stata una reciprocità. La serata è stata una festa per tutti: loro mi hanno dato una storia e io ho dato loro una voce. A volte, ancora oggi in un'epoca che i libri li maltratta un po', capita che succedano queste cose bellissime, che la gente vada negli alberghi con un libro, che mi arrivino ancora oggi foto di persone che vanno in quel posto perché lo hanno letto. Questo è molto bello, mi piace sapere che sia molto bello anche per loro e ne sappiano apprezzare il valore. Ho conosciuto un'umanità straordinaria, quello che per me era un posto esotico, adesso è un posto familiare, ha una radice emotiva... ha un valore aggiunto, direi, nella mia vita.

Che idea si è fatto del bilinguismo e della convivenza in Sudtirolo, su cui si dibatte ancora molto?

Bisogna considerare due aspetti. Da un punto di vista storico, mi sono fatto l'idea che ciascuno che studia questi argomenti non può trascurare: nella storia continua ad accadere che molti luoghi di confine, che hanno sulla carta una ricchezza di lingua, di cultura, di scambio molto maggiore, vengano trasformati dalla politica e dalla storia in territori di scontro. Questo è un fatto. Oggi le cose non mi sembrano più così aspre. Evidentemente non c'è niente di risoluto, perché queste cose finché non le affronti in maniera completamente aperta non possono avere delle soluzioni. La questione non è completamente risolta e archiviata, non può mai esserlo, ma mi sembra non ci siano più le punte – nella maggior parte del territorio – di asperità e di contrapposizione forte, non siano più visibili come prima.

E il secondo aspetto?

Mi sembra che il futuro apra delle prospettive interessanti, perché nascono persone in un mondo completamente diverso da quello in cui sono nate queste contrapposizioni. La globalizzazione, la facilità di spostamento, i collegamenti tecnologici, rendono i nostri mondi non più chiusi come prima. Parlare di una valle sessant'anni fa non è parlare di una valle di adesso, dove con un telefono sono più “cittadino del mondo” di quanto non fossi prima. Le nuove generazioni – di cui troppo in fretta parliamo male – possano dare una torsione, una svolta a questa vicenda. Ciò che piuttosto mi preoccupa è che questa svolta non sia un “sono figlio di un altro mondo, quelli erano problemi vostri, fatti vostri” ma che si cambi prospettiva con una consapevolezza di quello che c'è stato.

Sopra la superficie del lago vedi un turismo benestante di una regione benestante. Sotto lo specchio dell'acqua hai le macerie di un altro mondo. Un mondo dove sono passate dittature, guerre e povertà, che non si è lentamente decostruito, si è resettato.

In un'intervista ha detto: "Quando un luogo, dal più povero d'Italia e con il più alto tasso di analfabetismo come era l'Alto Adige, diventa di colpo il più ricco d'Italia, quando ci sono questi sbalzi, è evidente che non c'è stata quella faticosa presa di coscienza necessaria per capire cosa è successo".

Si spiega bene con l'immagine del lago e del campanile. Quando arrivi a Curon in un giorno d'estate come ci sono arrivato io, vedi sopra la superficie del lago, quello che sostanzialmente è un lago artificiale, un turismo benestante di una regione benestante, a vocazione turistica, un turismo con degli strumenti, con delle possibilità. Colpisce chi proviene da un'altra parte d'Italia, sud o nord che sia, questo ordine preciso, questi territori verdeggianti, la capacità di accoglienza turistica eccellente. Sotto lo specchio dell'acqua hai le macerie di un altro mondo. Un mondo dove, per molti anni, dal 1918 al 1945, sono passate dittature, guerre e povertà. Questo mondo, a un certo punto alla fine della guerra, non si è lentamente decostruito: è un mondo che si è resettato.

In che modo?

C'è stata la fine di un mondo, finito sott'acqua nell'ombra e nel silenzio, che non è stato raccontato, e sopra ne è stato messo un altro. Un mondo completamente diverso, benestante, con un'autonomia, che non ha gradualmente fatto i conti. Mentre l'Italia si ricostruiva lentamente, giorno dopo giorno, sulle macerie, in Alto Adige si è girata pagina e si è scritta una nuova storia. Per delle responsabilità evidentemente politiche la storia di prima è sostanzialmente taciuta, è finita sott'acqua. Non appartiene al nostro racconto, tanto prova ne sia che sui libri di scuola, chi studia l'unità d'Italia, l'Alto Adige non occupa nemmeno una riga. Né su quelli su cui ho studiato io, né su quelli sui quali ha studiato mio padre, né su quelli su cui studia mia figlia. È una storia che non è stata raccontata né nelle fasi più buie né nelle sue fasi di rinascita.

Gettare luce sulle pagine più buie della storia d'Italia – un paese di silenzi, misteri irrisolti, carte sparite, tragedie annunciate – quale importanza può avere in relazione al nostro presente?

La storia di Curon è emblematica, sia in positivo che in negativo. È una storia in cui il cosiddetto progresso interviene in maniera violenta e antidemocratica. Comunica l'esproprio e l'arrivo dell'acqua in una lingua che gli abitanti non capiscono, pagano le case e i terreni meno di quanto costa la carta da bollo su cui mandano le informazioni. Dall'altra parte, ci sono gli abitanti i quali, prostrati dalla guerra, forse hanno sottovalutato il reale pericolo, quella spada di Damocle che incombeva sulle loro teste da quarant'anni, pensando che anche quella volta l'avrebbero scampata. È una storia che ci parla di quanto il benessere ci possa far finire in una situazione in cui diamo i nostri diritti, i nostri luoghi per scontato, abdicando a un'idea di una partecipazione civile, di una sorveglianza e di una cura dei nostri spazi.

C'è il rischio che un giorno si dica “è troppo tardi”? Di non rendersi conto – o accorgersi per tempo – dei danni provocati da un progresso considerato inarrestabile, su cui non esercitiamo alcun controllo?

Finché l'informazione e la conoscenza di quello che lo Stato sta per costruire passa sempre dalla propaganda politica, non me ne so fare un'idea oggettiva, non posso che schierarmi in base all'inutilità e alla propaganda. A proposito della TAV, da persona mediamente informata, non ho ancora un'informazione oggettiva e scientifica di quello che succede realizzando quell'opera, tutto passa da quel partito che la rivendica e da quell'altro che ne rivendica il contrario. Tutto diventa in questo paese propaganda politica, un paese in perenne campagna elettorale. Tanto che non si riescono ad avere informazioni lucide e chiare che sono alla base della democrazia, per potermi permettere di intervenire scientemente nel dibattito pubblico, non solo come “fan”, ma perché con cognizione di causa ho acquisito gli elementi per capire. Invece si vive sempre in una zona d'ombra, nel sospetto.

La questione è: in democrazia ci interessa un progresso che si realizza in maniera così violenta e antidemocratica?

Chi è critico verso l'attuale modello di sviluppo, o esprime anche solo dei dubbi sulle “grandi opere”, viene etichettato come contrario al progresso, che dice “no a tutto” per partito preso.

È evidente – fa ridere solo dirlo – che questo libro non sia ideologicamente contrario al progresso. L'energia elettrica fa bene a tutti, a Curon come a Milano, oggi come ieri e come domani. La questione è un'altra: in democrazia ci interessa un progresso che si realizza in maniera così violenta e antidemocratica? Oggi è possibile, di fronte alle cose che succedono, che le persone non siano mai messe in condizione di sapere oggettivamente cosa avviene. Il nodo è questo.

A guidare la protesta di Curon e Resia ci sono Trina ed Erich, con la loro ostinazione, il loro non arrendersi all'apatia di chi li circonda, a parte padre Alfred che incita le persone a scendere in piazza: è di questa ostinazione che abbiamo ancora bisogno oggi, di fronte ai molti che “non si accorgono”?

Il mondo è sempre cambiato in meglio per delle minoranze. Trina, suo marito Erich come padre Alfred sono delle eccezioni, delle minoranze. Sono degli incitatori: padre Alfred, che è un personaggio vero, quando fa la manifestazione viene arrestato per tre giorni con l'accusa di aver sobillato il popolo. Aveva portato i contadini e quattro mucche davanti al cantiere. Le cose spesso sono cambiate per dei sobillatori del popolo, delle minoranze illuminate. Così era Gandhi, così erano mille altri. Il problema è non scambiare, non confondere una persona che ti stimola la coscienza civile, per un guru o un propagandista.

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Anton Walther Sun, 12/30/2018 - 20:47

Il tasso più alto di analfabetismo d’Italia, negli anni cinquanta? In realtà è vero il contrario, se quanto citato da Wikipedia è corretto (voce “Analfabetismo”):
“Per il censimento generale del 1951, la "qualifica" di analfabeta venne collegata non più a coloro che non sapevano scrivere il proprio nome, ma a coloro che non sapevano leggere e scrivere. Gli analfabeti risultarono così suddivisi per regione: Piemonte 3%, Valle d'Aosta 3%, Liguria 4%, Lombardia 2%, Veneto 7%, Trentino-Alto Adige 1%, Friuli-Venezia Giulia 4%, Emilia-Romagna 8%, Toscana 11%, Marche 13%, Umbria 14%, Lazio 10%, Abruzzo-Molise 19%, Campania 23%, Puglia 24%, Basilicata 29%, Calabria 32%, Sicilia 24% e Sardegna 22%.”

Sun, 12/30/2018 - 20:47 Permalink