Economy | Dopo il "lockdown"

Ricominciare dai libri

La fine del “lockdown” è stata inaugurata dalla riapertura delle librerie: avamposto culturale o settore in cui si è affermato un ingiustificato privilegio?
Libreria Ubik Bolzano
Foto: Salto.bz

Come noto, il DPCM del 10 aprile ha di fatto inaugurato il processo di avvicinamento alla cosiddetta “fase 2” dello stato di emergenza proclamato in seguito alla diffusione del Coronavirus. Tra i provvedimenti di allentamento del “lockdown” spicca la riapertura delle librerie – in verità non in tutto il Paese, visto che in Lombardia, la regione più colpita, lo scenario è ancora improntato alla massima prudenza –, occasione che ci ha fornito il pretesto di entrare in alcuni negozi del centro storico bolzanino, per osservare la reazione degli addetti ai lavori e dei clienti che, tutti muniti di mascherina e in qualche caso anche di guanti, hanno ricominciato ad aggirarsi tra i volumi rimasti per più di un mese senza acquirenti (ma anche questo non è completamente vero, visto che alcuni esercizi avevano adottato un sistema di vendita per corrispondenza).

 

Alla libreria Mardi Gras (di via Andreas Hofer) la situazione è molto calma. Davanti all'ingresso il titolare, Konrad Daum, ha predisposto l'occorrente per disinfettarsi le mani e un distributore di guanti monouso. Come verificheremo anche nelle altre due librerie visitate (Ubik e Athesia), gran parte dell'attività di questi primi giorni si svolge al telefono: sono molte infatti le persone che chiamano per informarsi sull'effettiva riapertura, vogliono sapere gli orari e non mancano le richieste di possibili ordinazioni. Daum è soddisfatto del decreto ministeriale, della ripresa delle attività, anche se ha qualche perplessità sulle informazioni che le autorità hanno diffuso riguardo agli spostamenti dei cittadini: “Si è parlato prima di duecento metri, adesso a Bolzano pare siano quattrocento, ma allora mi chiedo come facciano le persone che abitano oltre il ponte Talvera a raggiungerci, mi pare un controsenso”. A parte questo, l'attività è ripartita già con slancio: “Sì, all'inizio ho trovato poco sensato che restassero aperti altri esercizi e dovessimo chiudere noi, che in teoria avremmo sempre potuto garantire un afflusso ordinato e in piena sicurezza. Ma le cose sono andate in altro modo, adesso non voglio lamentarmi. Abbiamo voglia di riprendere a lavorare per offrire ai cittadini la possibilità di riacquistare l'abitudine a visitarci e ad usufruire della nostra proposta culturale”. Il rispetto delle norme igieniche non sembra costituire un grosso problema (“entrano massimo cinque persone alla volta”), ma non ci sono file fuori dalla porta, quindi in pratica il problema non si pone.

La discussione sul senso (in parte controverso) della riapertura delle librerie la approfondisco con Marcello Landi, che gestisce il punto vendita Ubik di via Grappoli. Landi si definisce appartenente ad una “minoranza critica” e il suo ragionamento merita di essere illustrato nel dettaglio. “La nostra categoria tende – a mio avviso non completamente a ragione – a considerarsi un insostituibile baluardo culturale, quindi ha in un certo senso accampato la richiesta di un trattamento privilegiato, anche dal punto di vista economico, mediante il sostegno pubblico, che io condivido molto limitatamente. Certo, io sono il primo ad attribuire al nostro lavoro un alto significato sociale, ma non al prezzo di considerare le librerie la punta avanzata di un movimento che avrebbe in altri settori, come dire, la sua retroguardia. Penso che dovremmo essere tutti trattati allo stesso modo, e sono convinto che dovremmo essere proprio noi a spingere in questa direzione, invece che considerarci alla stregua di una aristocrazia in verità molto presuntuosa. A questo proposito vorrei fare un discorso di più ampio respiro, cogliendo l'opportunità che ci ha fornito la pandemia per ripensare anche la complessiva destinazione sociale della nostra attività: se davvero le librerie sono molto più che un semplice luogo in cui si vendono solo oggetti tra gli altri, i libri appunto, se esse vogliono essere considerate un presidio in cui si pratica anche e soprattutto lo scambio e s'intesse la rete relazionale, allora è chiaro che in futuro si potrebbe pensare di farne – almeno in parte – dei luoghi pubblici tout court, sottratti dunque alle logiche di mercato. Altrimenti perché chiedere il sostegno pubblico se restiamo soggetti privati al pari di tutti gli altri?”. Nonostante sia soddisfatto per la riapertura, Landi ritiene che essa avrebbe dovuto forse essere coordinata (e non anteposta) a quella degli altri negozi, anche per prevenire l'accusa che la rinnovata accessibilità delle librerie fornisca solo un spot pubblicitario dietro al quale la politica culturale complessiva rimane ferma al punto di prima. L'argomento è senza dubbio molto interessante, ma le telefonate si susseguono (“sì signora, siamo aperti dalle nove alle tredici e dalle quindici alle diciannove...”) e lasciamo Landi al suo lavoro. Fra l'altro, come annuncia la pagina Facebook della libreria, in questi giorni è stato messo a punto anche un servizio di spedizioni gratuite, tramite corriere, per quei clienti che fossero ancora impossibilitati a spostarsi per raggiungere il negozio del centro.

Chiudiamo la nostra visita nelle librerie di Bolzano girando per i diversi piani del punto vendita Athesia, una ditta che per quanto riguarda l'intreccio di pubblico e privato non è seconda a nessuno. Qui i clienti sono già più numerosi, ma si ripetono le stesse scene osservate in precedenza: si cerca di rispettare gli spazi e le mascherine rendono la comunicazione molto meno agevole di quanto sarebbe auspicabile. Mi resta giusto il tempo di riflettere sul futuro di un'istituzione che, a differenza delle altre, molti vorrebbero caricare di un valore simbolico particolare, come se la cultura non fosse pensabile senza i libri e, soprattutto, al di fuori della cornice che finora ne ha sempre veicolato la fruizione. Allora mi tornano in mente le parole appassionate di uno scrittore, Andrea Pomella, che qualche giorno fa ha scritto su Facebook: “Trovo intollerabile sentir parlare del libro come di un bene primario in un paese in cui quattro persone su dieci, in un anno, ne leggono almeno uno per motivi non professionali. Tecnicamente, numeri alla mano, il libro è un bene indirizzato a una nicchia di mercato. Non voglio sminuire il valore del libro, figuriamoci. Però ho sempre storto il naso di fronte a certe indiscriminate campagne di sensibilizzazione alla lettura. Leggere fa bene? Dipende dal libro. A volte trovo più sano mangiare, fare una passeggiata, suonare la chitarra o giocare a Scarabeo. Se in Italia la filiera del libro, l’istruzione, la cultura fossero sostenuti, e non solo a parole, allora il libro avrebbe speranza e ragione di diventare, magari fra un secolo, un valore primario di questa società. Ma adesso non lo è, o almeno non lo è più di quanto non lo siano altri prodotti di cui si è dovuta sospendere la produzione. È importante, certo, perché dà da mangiare a chi coi libri ci lavora, ma non è così importante per i lettori, ossia per la nicchia dei consumatori, che di libri da leggere ne avrebbero per cent’anni. Il libro non è cibo per l'anima, è cibo per lo stomaco. Perciò sulla riapertura delle librerie gli unici che ha senso che si esprimano sono i librai, gli editori, i distributori e tutti coloro che sono coinvolti nella filiera. Quelli che parlano di anima leggano Platone, Sant’Agostino e Schelling. Quelli che leggono un libro l’anno, ne leggano almeno due. E i non lettori tacciano”. Forse che tacciano non è auspicabile, ma un invito a riflettere su queste parole glielo vorremmo senz'altro trasmettere.