Cuca e Maleve, Figlia delle montagne
Una pinzetta per le sopracciglia, una pinzetta di ferro con la punta rettangolare. Flessuosa, quasi inconsistente. Questo è stato il primo regalo che ho avuto dagli alunni per la festa dell'insegnante, il 7 marzo. Rimasi stupefatta quando scartai il pacchetto ovale e piatto avvolto dalla carta di giornale. Avvisata dalle colleghe più anziane del regalo in arrivo avevo ipotizzato un rossetto, un fazzoletto ricamato, o un piccolo profumo. Ma mai una cosuccia di ferro, uno "strappa-peli". Lo infilai dentro la mia borsa da Mary Poppins dove di solito tenevo un bel po' di mondo in briciole. Dai quaderni degli alunni più difficoltosi alle caramelle appiccicose attaccate al pettine. Dai fiorellini secchi raccolti dai bambini nei campi dove pascolavano le pecore, ai semi di girasole tostati che usavamo mangiare di nascosto con i colleghi tra una pausa e l'altra. Il mio primo impiego da insegnante fu per niente piacevole. Partivo verso uno sperduto villaggio di Durazzo, il pullman ci scaricava sul ciglio della strada alla prima fermata, Maminas. Da Maminas, da una scuola media, gli insegnanti che venivano da fuori come me dovevano continuare verso una seconda destinazione facendo due ore di strada a piedi. Calzavano degli stivali adatti per la striscia fangosa e ostica, la lingua di terra brunastra che proseguiva verso la scuola superiore di Metallaj. Lì esercitai per prima volta la professione di insegnante.
Messi gli stivaloni di gomma color erba, assieme ad un paio di colleghi arrivati da altre parti della provincia, proseguivo verso la destinazione: un paesino di 100-200 abitanti che vivevano con poco, bestiame e agricoltura. Era una strada a spirale che giungeva alla cima della montagna dove si vedeva a malapena, sotto un albero robusto, un edificio giallastro di un piano solo, con le mura umide e il tetto rovinato. Una sorta di vecchia casa, con 6 classi, una sala insegnanti, l'ufficio della direzione, ed un paio di bagni. Una scuola che, sul fianco destro, aveva il cimitero del paese, un cimitero senza alberi. Rammento una forte morsa al cuore mentre comunicavo con i miei alunni pallidi e assenti il primo giorno, mi accorgevo degli uccelli che si posavano sopra i marmi dei sepolcri vicini alla finestra della classe. Mentre tornavo a casa, avevo tentato di pensare a un paio di ragioni valide che mi avrebbero trattenuto dal ritornare là il giorno seguente. Ho valutato seriamente che sarebbe stato un fiasco, e che sarei stata un'insegnante noiosa e rognosa. Era tutto deprimente, il villaggio, i bambini, il cimitero che sparpagliava intorno una certa ansia "unta". L'impressione era che dentro quell'edificio vecchio e scialbo la morte trascorreva le sue giornate comoda e rilassata.
Mentre ragionavo così, in una maniera contorta, per niente etica e illuminata, mi era apparso come un lampo a ciel sereno il bel viso di Cuca e Maleve. La ragazza vestita col costume tradizionale, con un leggero velo sopra i capelli lunghi mentre andava di sera in cerca di guai. Era la figlia di Gjin, un povero contadino sbattezzato dalla chiesa perché aveva rifiutato l’accusa, infondata, di aver rubato un pezzo di terra ad un vicino. Secondo l'usanza il peccatore doveva girare attorno alla chiesa tenendo sulle spalle una pietra pesante definita la pietra della vergogna. L’uomo, onesto e credente, aveva rifiutato disgustato, e di seguito tutta la famiglia era stata sbattezzata. La neonata venne chiamata da tutti: la Figlia delle Montagne, la figlia di nessuno, ossia la figlia della vergogna: Cuca e Maleve. Cuca è il simbolo di tante ragazze montanare del nord dell'Albania, le quali appena dopo la guerra, consce del pericolo di vita che correvano, andavano di nascosto nelle case dei loro paesani insegnando a leggere e a scrivere. Negli anni '40 il Comitato delle Montagne, bande di criminali dispersi sul territorio albanese dal nord al sud, elencavano continuamente su delle liste nere i nomi dei comunisti e delle donne che sfidavano la società patriarcale. La Figlia della Montagna correggeva i compiti dei bambini a casa sua sotto il lume della lanterna. “Le nostre montagne sono belle e rigide”, sussurrava mentre decifrava le composizioni delle sue alunne analfabete. Chiacchierava tranquilla tra un compito e l'altro con la sua mamma cieca. Venne giustiziata dal Comitato a mezzanotte, una mezzanotte qualsiasi. Avevano sfondato la porta tra le urla disperate della mamma anziana che girovagava terrorizzata nel buio del cortile senza poter salvare la sua unica figlia che veniva trascinata fuori, legata, con gli occhi bendati, portata nel bosco e fatta a pezzi.
Sarà stato a causa sua che decisi, l'indomani mattina, di risalire sul pullman verso la prima fermata. Scendere al primo villaggio, mettere gli stivaloni, e continuare a piedi, due ore verso la seconda destinazione: la piccola scuola sotto l'albero accanto al cimitero del paese. L'incanto di quel modello genuino aveva operato senza avvisarmi, toccando la memoria e l'emozione, mettendomi di fronte a colei che potevo essere. Mi ero innamorata di quella che poteva essere me. Mesi dopo il mio primo 7 Marzo decisi di tirare fuori della borsa di Mary Poppins la piccola pinzetta, e, sempre per prima volta delineai le mie sopracciglia. Non era cosi doloroso, in fondo. La considerai una liberazione spensierata, ad opera della Figlia della Montagna che giaceva in me. Da quel momento in poi i contadini non parevano più cosi ombrosi, i bambini erano vivaci e sorridenti benché gracili, e il cimitero non aveva più quel velo lugubre. Lo immaginai come una sorta di amico del villaggio vivente, un villaggio morto che ogni tanto scambiava il posto e il destino con il prossimo organico.