Diritto alla gogna mediatica? No grazie
Leggo delle accuse di poca trasparenza nei confronti della Procura della Repubblica di Bolzano, rea di non aver divulgato “verità già ampiamente verificate” – così, testualmente, l’autorevole direttore di un importante quotidiano locale - in riferimento alla ritardata compartecipazione del pubblico alla confessione rilasciata agli inquirenti da parte di tale BN, indagato per omicidio; l’Ordine dei giornalisti stesso ha chiesto al Procuratore della Repubblica di giustificare i motivi del “ritardo” nella comunicazione della “svolta decisiva” nelle indagini.
Sarà forse allora utile rimarcare come la confessione è fatto processualmente rilevante ma di certo non decisivo, che non esonera gli investigatori dall’approfondimento necessario (ricercando, ad esempio, elementi di riscontro). Chi pensa invece che la confessione sia la prova regna potrà reperire facilmente in rete lo studio di Innocente Project, un’associazione statunitense che si occupa di verificare casi giudiziari con condannati in via definitiva mediante la prova del DNA, che certifica che su 350 condanne erronee, fortunatamente esonerati con la prova del DNA, le false confessioni occupano il 27% delle cause di condanne errate. Ossia: più di un quarto dei condannati in via definitiva aveva confessato un crimine che non aveva commesso (se vi rimangono dei dubbi, guardatevi “the Confession Tapes” su Netflix). La confessione, dunque, non è idonea ad accertare alcunché: l’accertamento processuale di un fatto necessita sempre – sempre! – della sentenza di un giudice. Di più: come insegna il caso Amanda Knox, un caso in cui un “inusitato clamore mediatico della vicenda (…) ha fatto sì che le indagini subissero un’improvvisa accelerazione, che, nella spasmodica ricerca di uno o più colpevoli da consegnare all’opinione pubblica internazionale, non ha certamente giovato alla ricerca della verità sostanziale” (parola della sentenza di Cassazione che nel 2015 l’assolse), si deve aspettare la sentenza definitiva del giudice.
Innumerevoli sentenze si occupano dei limiti al diritto di cronaca (anche giudiziaria), che troppo spesso confonde ipotesi investigative con fatti accertati, pubblicando particolari e foto degli arrestati e/o dei loro familiari, indugiando con dettagli che non sembrano avere altro scopo che aizzare la folla giustizialista
Prima dell’accertamento definitivo, dunque, c’è solo la presunzione di innocenza. Lo ricorda anche il Testo unico dei doveri del giornalista, che oltre al diritto insopprimibile dei giornalisti della libertà d’informazione e di critica, peraltro limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui e al loro “obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”, in tema di Cronaca giudiziaria e processi in tv ricorda che il giornalista “rispetta sempre e comunque il diritto alla presunzione di non colpevolezza”; “evita, nel riportare il contenuto di qualunque atto processuale o d’indagine, di citare persone il cui ruolo non sia essenziale per la comprensione dei fatti”; “rispetta il principio del contraddittorio delle tesi, assicurando la presenza e la pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti che le sostengono – comunque diversi dalle parti che si confrontano nel processo – garantendo il principio di buona fede e continenza nella corretta ricostruzione degli avvenimenti; cura che risultino chiare le differenze fra documentazione e rappresentazione, fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra pubblico ministero e giudice, fra accusa e difesa, fra carattere non definitivo e definitivo dei provvedimenti e delle decisioni nell’evoluzione delle fasi e dei gradi dei procedimenti e dei giudizi”.
È quindi la stessa normativa di settore – oltre al Codice di procedura penale, la Costituzione, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la direttiva europea 343/2016 – a richiedere il rispetto della presunzione di innocenza anche nel fondamentale diritto alla informazione, diretta emanazione del diritto alla libertà di manifestatine del pensiero che è stato definito dalla Corte Costituzionale “pietra angolare del sistema democratico”. E ciò perché “non può tacersi che nell’attuale società mediatica l’opinione pubblica tende ad assumere come veri i fatti rappresentati dai media, se non immediatamente contestati: la verità mediatica, cioè quella raccontata dai media, si sovrappone, infatti, alla verità storica e si fissa nella memoria collettiva (…)” come scrisse sempre la Cassazione nel 2014. Ecco la ragione per la quale il sacrosanto controllo dell’opinione pubblica sull’esercizio del potere (anche giudiziario) per l’insostituibile tramite dei mezzi di informazione può e deve essere bilanciato con il diritto, altrettanto fondamentale, del processo “equo”, costituito sul pilastro della presunzione di innocenza.
... bene ha fatto l’autorità giudiziaria a secretare quella fuga di notizie che – mi si perdoni la franchezza – insieme ad interviste mascherate, dettagli sulla frequentazione dell’estetista dell’indagato o foto di familiari sbattuti in prima pagina era uno spettacolo indegno di uno stato di diritto
Innumerevoli sentenze si occupano dei limiti al diritto di cronaca (anche giudiziaria), che troppo spesso confonde ipotesi investigative con fatti accertati, pubblicando particolari e foto degli arrestati e/o dei loro familiari, indugiando con dettagli che non sembrano avere altro scopo che aizzare la folla giustizialista. Sin dal 1984 la Cassazione ha statuito che la divulgazione di notizie lesive dell’onore possa rientrare nella lecita espressione del diritto di cronaca ed escludere la responsabilità civile per diffamazione, devono ricorrere tre condizioni consistenti: la verità oggettiva, l’interesse pubblico all’informazione (pertinenza), nella forma “civile” dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione (continenza), posto che lo scritto non deve mai eccedere lo scopo informativo da conseguire; deve essere improntato a serena obiettività, con esclusione di ogni preconcetto intento denigratorio; deve essere redatto nel rispetto di quel minimo di dignità cui ha pur sempre diritto anche la più riprovevole delle persone.
In sostanza soltanto la correlazione rigorosa tra fatto e notizia dello stesso soddisfa l’interesse pubblico all’informazione: e stupisce quindi la pretesa da parte dei “watchdogs of democracy” di essere informati in tempo reale degli sviluppi delle indagini. Perché tale diritto semplicemente non esiste, e bene ha fatto l’autorità giudiziaria a secretare quella fuga di notizie che – mi si perdoni la franchezza – insieme ad interviste mascherate, dettagli sulla frequentazione dell’estetista dell’indagato o foto di familiari sbattuti in prima pagina era uno spettacolo indegno di uno stato di diritto. Che conosce e tutela il diritto alla informazione, ma non il diritto alla gogna mediatica, vergogna dei nostri tempi.
Wie immer ein sehr guter,
Wie immer ein sehr guter, überdachter Beitrag von Nicola Canestrini. Die Journalistenkammer hat sich wieder einmal als vollkommen unseriös präsentiert. Wahrscheinlich bekomme ich wegen dieser Worte wieder einmal die Drohung mit einem Disziplinarverfahren.
Toller Artikel! Ich bin mit
Toller Artikel! Ich bin mit Dr. Canestrini vollkommen einverstanden. Es ist nur Schade, dass genau die Salto-Portal Journalisten die brutalsten Artikel schreiben, um das öffentliche Bild der Menschen zu zerstören. Ein wenig Kohärenz bitte!