Scivola via, senza particolari celebrazioni, in Alto Adige almeno, il centenario della nascita di Aldo Moro. Altrove si sono organizzati convegni, sono usciti diversi libri, tra i quali da segnalare, perché di particolare interesse, quello scritto dallo storico Guido Formigoni, intitolato per l'appunto "Aldo Moro", edito da Il Mulino. Eppure la figura di Moro è fondamentale per capire qualcosa nelle vicende altoatesine del secondo dopoguerra. Il suo contributo al superamento della fase di scontro frontale degli anni 60 tra lo Stato e la minoranza sudtirolese è stato sicuramente fondamentale. Aldo Moro può essere considerato a buon diritto come uno dei "padri" della seconda autonomia.
E qui nasce il primo problema ed emerge uno dei motivi per i quali, in certi ambienti almeno, si è preferito tranquillamente sorvolare sulla ricorrenza.
La storia dell'autonomia, così come essa viene politicamente tramandata nel mondo sudtirolese, non ammette in realtà che da parte italiana vi possa essere stato, nei vari passaggi storici, un qualcosa di più di una forzata disponibilità alla concessione. Nella sua estrema semplificazione, l'autocelebrazione propone il modello dei politici della Suedtiroler Volkspartei impegnati strenuamente ad ottenere il massimo e capaci, con astuzia e tenacia, di abbattere i pregiudizi centralistici del mondo politico romano, grazie anche al sostegno della madrepatria Austria. In questo quadretto, privo di sfumature, non c'è posto evidentemente per categorie lievemente più sottili. Stonerebbe con resto l'immagine di un politico italiano che, di fronte ai rischi di guerra civile che percorrevano l'Alto Adige durante la guerra dei tralicci, si pose seriamente il problema di portare la questione su un livello politico più alto, di recuperare nelle proprie radici ideologiche di matrice cattolica , nella propria competenza giuridica il fondamento per impostare una politica assolutamente nuova e diversa rispetto a quella attuata dal 1918 in poi.
Questo, in sintesi estrema, fu l'Aldo Moro che, a metà degli anni 60, dopo il rifiuto della SVP di accettare le intese siglate, sopra la testa dei sudtirolesi, dal duo socialista Saragat-Kreisky, riprese pazientemente in mano la questione, utilizzando tutto il materiale disponibile, compreso quello elaborato in precedenza dalla "Commissione dei 19", invitò Silvius Magnago a Palazzo Chigi e lo ascoltò, per ore ed ore, senza interromperlo.
Accanto a Moro, in questa impresa, un altro uomo politico, Alcide Berloffa, capace di fornire a quella linea politica il raccordo essenziale la realtà altoatesina, anche attraverso l'attività di un gruppo, abbastanza piccolo,di cattolici democratici impegnati in politica, passati alla storia come la "sinistra democristiana".
Uno di loro, Giancarlo Bolognini, già sindaco di Bolzano e assessore provinciale, ha rievocato quegli anni di quegli eventi nei giorni scorsi, in occasione di quello che resterà probabilmente l'unico appuntamento dedicato alla figura di Moro e alla sua importanza per le vicende altoatesine. Al dibattito, organizzato dalla Civica di Merano, ha preso parte anche l'Onorevole Lorenzo Dellai, erede politico di un altro ramo, quello trentino, di quella tradizione di impegno cattolico caratterizzata da figure come quella di Bruno Kessler.
Ha scavato nei suoi ricordi, Bolognini, per restituire il clima di quegli anni infuocati, quando ad esempio, Bolzano, nei comizi di chiusura della campagna elettorale si sarebbe potuto assistere ad una sorta di staffetta tra un onorevole eletto per la Dc e un esponente missino che usavano lo stesso linguaggio e ricevevano la stessa dose di applausi da parte di una folla carica di suggestioni nazionaliste.
Aldo Moro e Kurt Waldheim
Sono analisi e racconti dai quali emerge chiaro un elemento: se l'atteggiamento di Moro e gli altri politici italiani nei confronti del problema altoatesino fosse veramente stato dettato, come a Bolzano a molti piace pensare, dal timore per qualche ondata di esplosioni notturne, dalla convenienza politica del momento, o anche, come diceva allora l'opposizione di destra, dalla totale assenza di spirito patriottico, è chiaro che quel lungo percorso avviato negli interminabili incontri di Palazzo Chigi e completato solo trent'anni dopo con l'emanazione delle ultime norme di attuazione, non si sarebbe mai compiuto. Dietro quelle intese c'è ben altro. C'è un'intuizione, recuperata dai motivi ideali che nel 1946 avevano portato alla firma del Patto di Parigi, che poteva esserci un'altra strada, intermedia e diversa, rispetto a quella dell'ottuso centralismo repressivo coltivato, in sostanziale continuità con l'epoca fascista, da molti ambienti romani e bolzanini. Ben diversa, quella strada, anche rispetto alla suggestione della guerra civile, con il suo carico di errori ed orrori, che era il programma privilegiato da una parte del mondo sudtirolese più ampia di quanto non si voglia ammettere rispetto ai nuclei di coloro che usavano il tritolo come strumento di lotta politica.
Nell'elaborare e nel mettere in pratica questa intuizione politica Aldo Moro non fa altro che applicare al complesso problema altoatesino lo stesso metodo che lo muove, a livello nazionale, nel lungo e difficilissimo processo di avvicinamento allo storico avversario comunista. Per l'una e per l'altra scelta diviene l'uomo più odiato dalla destra italiana, condannato, con tutti coloro che gli sono stati vicini politicamente ad una "damnatio memoriae", ad una rabbiosa rimozione, chee nemmeno la tragica morte è riuscita a rimuovere.
Ecco perché non deve stupire il fatto che, in un Alto Adige così ricco di iniziative e di occasioni di approfondimento culturale, non si sia trovato spazio per una approfondita rilettura dell'opera di Moro nel quadro della storia locale dell'ottocento. Eppure, come ha giustamente sottolineato Lorenzo Dellai, capire ciò che Moro ha fatto, non sarebbe forse inutile, oggi, in un momento nel quale il processo di revisione dell'autonomia pare affondare, privo com'è di una rotta ideale, nei gorghi impetuosi delle provocazioni nazionaliste, delle tattiche politiche di breve respiro, della mediocrità progettuale.