Nel dormiveglia austriaco
Salto.bz: Come si sente, da toscano, a essere curatore di una mostra in Austria?
Michele Fucich: Per un operatore culturale toscano, banalmente detto, andare a operare per scelta di vita e di lavoro nel territorio compreso tra il Sudtirolo e il Tirolo austriaco, è un tema. Sono nato e cresciuto a Follonica (in provincia di Grosseto, ndr): una cittadina marcata fondativamente da un architetto del Granduca Leopoldo II d'Asburgo-Lorena, Carlo Reishammer, che insieme all'architetto fiorentino Alessandro Manetti ha progettato ed edificato la città-fabbrica di Follonica, dando origine alla storia moderna di questa “città del lavoro” della Maremma prima abitata solo da pescatori. Che la manifattura granducale della “Regia fonderia di Follonica” abbia portato oggetti rimarchevoli come la recinzione di ghisa del Duomo di Firenze, da storico dell'arte, è un segno che marca un importante trait d'union storico.
Da quell'angolo di Toscana – così ricco di suggestioni risalenti all'amministrazione austriaca di Pietro Leopoldo, figlio dell'imperatrice Maria Teresa – ha finito per muoversi verso nord.
A Berlino, dopo gli studi a Pisa e Siena, e poi a Bolzano/Bozen. Dal regno asburgico granducale a quello tirolese, nel 2009, per la mostra euro-regionale dell'anno hoferiano alla fortezza di Fortezza/Franzensfeste. Dopodiché è arrivata la collaborazione con il “Museion” e in ultima con la galleria “Km0” (kilometrozero) con sede in Bozner Platz a Innsbruck, collaborazione nata dalla ricerca e scrittura di testi scientifici per i cataloghi di una casa d'aste che condivide la stessa sede di Km0. La galleria, con una sua identità autonoma a Innsbruck, è un'entità sorella di “Harlem Room” a Milano, legata a sua volta a Montrasio Arte, galleria storica milanese.
Perché un'esposizione proprio a Innsbruck (e non a Bolzano)? E perché proprio adesso?
La galleria mi ha chiesto di concepire una mostra di giovani artisti prevalentemente austriaci che si inserisse nell'ambito dei Premierentage, la tre giorni organizzata ogni anno dalla città di Innsbruck con un fitto programma d'inaugurazioni di gallerie e spazi culturali. Nell'arco dei tre giorni la città organizza una sorta di “pellegrinaggio” alle varie mostre (nonché Expertenführungen) e il pubblico è messo nelle condizioni di presentarsi a più inaugurazioni in una stessa giornata. Ciò ha toccato le mie corde, venendo io dalla mediazione, ed è stato interessante affrontare la specificità di Innsbruck in un preciso momento storico per l'Austria. Ho pensato la mostra nel “basement”, ovvero negli scantinati della galleria (che ha anche un piano terra e superiore), cantine sotterranee marcate da tubi del gas e dell'acqua. Partendo da zero e in libertà totale, ho pensato il concetto della mostra, quali artisti e quali opere, proprio perché esiste questo scantinato: quello è il luogo, lo spazio, che ho voluto incarnasse la mostra, offrisse il suo corpo specifico per quella mostra specifica.
Com'è nato il titolo, ovvero l'argomento affrontato dalla mostra, “Im Dämmerschlaf”?
Ho pensato prima di tutto al luogo: misurandomi con un sotterraneo, l'espressione “nel dormiveglia” è nata subito, è la metafora che m'è arrivata prima. È stata una convergenza di pensiero sullo stato sociopolitico dell'Europa e dell'Austria, scegliendo dei lavori che s'insinuassero in maniera non esplicita nel sociopolitico. Ogni lettura è infatti demandata al rapporto diretto con le opere, e non ad alcuna dichiarazione, né critica, né manifesto espresso. Un'Europa, un'Austria – nel difficile clima politico attorno alle elezioni del nuovo Presidente della Repubblica – ma anche un'Italia “in dormiveglia” nel 2016 potevano riconoscersi in questo termine, che restava per me sottotraccia. Mi sono chiesto quale apporto la storia artistica del ventesimo secolo avesse dato alla parola “sonno”, dato che il dormiveglia è un fenomeno implicato con sonno e veglia: come “scatola vuota” mi è sorta immediatamente la “coscienza”, tema filosofico e psicanalitico che l'arte ha trattato.
Uno stato mentale letteralmente al “confine”. Di recente le curatrici di Lottozero, attraverso la dimensione sonora dello “sleep concert”, hanno tematizzato proprio quello stato “tra sonno profondo, ascolto, veglia cosciente, visioni, assopimento, dormiveglia, meditazione” capace di rendere più tangibili i propri sogni...
D'altronde il surrealismo ha immediatamente desinato il tema “coscienza” nel termine subconscio o inconscio, soprattutto freudianamente, con il rischio che fosse tematizzato in maniera negativa, un “io” notturno prigioniero, soppresso e rimosso dalla coscienza diurna. Qualcosa di represso, che ha agito e vissuto solo nel sonno, separato dalla pace cosciente. Il dormiveglia è invece lo stato poroso e transitivo di passaggio tra veglia “coscienza” e sonno “inconscio” che è più facilmente corporeizzabile in uno stato fisico, molto più percettibile del sonno e dei sogni, catacomba dell'io non manovrabile.
Quali sono le figure da cui ha tratto ispirazione?
Ho scelto due binomi, dei Caronte e Virgilio che potessero accompagnarmi. In primo luogo due precursori del romanticismo che hanno marcato l'epopea romantica dell'Ottocento, Johann Heinrich Füssli e Francisco Goya, presi paradigmaticamente e in bilico. Quadro emblema per Füssli è l'Incubo, che ritrae quella particolare forma di incubo – secondo gli studi di età positivista – rappresentata dalla cd. paralisi ipnagogica: un incubo a occhi aperti, non vissuto nel sonno, uno stato in cui il soggetto è impossessato dal contenuto degli incubi, in una veglia imprigionata dal contenuto terribile dell'incubo. In opposizione ho avocato a me Goya, che nel ciclo Los Disperates raffigura non il contenuto del sonno, bensì il lato da incubo e mostruoso di una ragione diurna. Lui si pone in semi-veglia, senza entrare nel sonno ma restando leggermente fuori, raffigurando il “lato oscuro” del mito solare della ragione che aveva trionfato dalla Rivoluzione al Congresso di Vienna.
E il secondo binomio?
Lì contava l'Austria. In primis la Traumnovelle di Arthur Schnitzler di inizio degli anni Venti, “tradotta” da Stanley Kubrick con il film Eyes Wide Shut. Mi ha interessato un episodio paradigmatico: il marito torna a casa da una nottata orgiastica, fa di tutto per non svegliare la moglie rimasta a casa nei suoi sogni di fuga e d'evasione. La osserva dormiente e, sconvolto da come lei appare, comincia a non riconoscerla, prova terrore e c'è un momento in cui lei apre gli occhi e in uno stato di dormiveglia non lo riconosce. Si fanno terrore a vicenda, non si possono incontrare: lui ha terrore di ciò che lei sta vivendo e lei è barricata nei suoi occhi aperti. L'altro elemento è curioso: come si legge sulla voce Wikipedia Dämmerschlaf (dormiveglia appunto) indica una tecnica dentistica di addormentamento parziale del paziente.
La mostra è stata concepita “guardando all'Austria” dalla Toscana?
Sì, e ciò ha inciso sul mio lavoro, era l'unica via che consideravo percorribile. Questo distacco ha aiutato, dalla Toscana ho instaurato tutti i rapporti con gli artisti. Alcuni li conoscevo già, altri li ho trovati impegnandomi a cercare online tra gli artisti operanti in Austria che rispondessero il più possibile all'ispirazione di fondo scaturita da quel luogo. Ho intravisto la personalità degli artisti dietro alle opere che poi ho scelto. Dall'Italia arrivano i fotografi Nicolò Degiorgis di Bolzano e Martina della Valle di Firenze (trasferitasi a Innsbruck), dall'Austria il tedesco-svedese Jakob Steiner e la greca Stefania Strouza, entrambi di Vienna, nonché Ines Lechleitner e Mara Novak. Berndt Oppl e Romana Fiechtner vivono a Innsbruck.
Nel “Hinterkopf” ha avuto anche e soprattutto la natura dello spazio espositivo.
L'incarnazione nello spazio delle opere è decisiva. Ho cercato di non fare una mostra, di non “mostrare” o “esporre” le opere, grazie e in virtù al rapporto con lo spazio. Ho lavorato cioè per rapporti spaziali, stando attento alla semantica che scaturisce dalle opere, e nella convinzione che lo spettatore, immergendosi in questa rete di relazioni, fosse libero di leggere tali interazioni e di portarsele dietro, di iniziare a pensarci quando esce dalla mostra. L'esperienza del mondo (e non solo dell'arte) ha contraddetto il pensiero dello spazio come mero contenitore, con categorie prefissate e schemi stabiliti a priori. Non potevo tradirmi, e nel posizionare le opere mi sono messo in discussione. Nell'allestimento ha collaborato la performer bolzanina Silvia Morandi; il tema della poetica dello spazio è un lavoro performativo, le opere diventano corpi-opera che interagiscono tra loro.
Ha sottolineato l'importanza dello spazio, con opere non solo esposte ma in dialogo tra loro. Ci racconti in che modo è avvenuto, concretamente, questo dialogo.
Nello spazio più grande del basement ho sviluppato il tema dell'interazione. Una sala lunga dove, creando linee di tensione, ho provato a dare centralità e dilatare nello spazio i corpi dell'artista greca Stefania Strouza. In base a quest'asse dominante, le sue opere articolano gli altri posizionamenti, perché consentono di mettere al centro dei temi, incarnati dalle forme, che a loro volta fanno da baricentro e sfondo al tutto. L'asse, o meglio, la soglia creata dalle sue opere l'ho distribuito a partire da un'asta verticale sospesa dal soffitto, “It can only be understood as a section”: è il tema della sezione, come elemento di intersezione tra un solido, una figura e un piano. Andando avanti c'è l'opera centrale in ferro battuto, il Modulor di Le Corbusier. Un sistema di proporzioni emblema del massimo idealismo antropocentrico occidentale, che fonda tutto il pensiero architettonico, urbanistico e politico sulla pretesa armonia della classicità. Un'opera trasparente che lo sguardo dello spettatore “sfonda” verso tre fotografie di piccolo formato sulla parete, “Black Athena”, ovvero frammenti d'una statua di Atena classica in nero su sfondo bianco. Tra Modulor e Black Athena vi sono dei calchi di gesso, tra cui una piccola arena tagliata a metà “inconsapevole della sua collocazione nel passato”, che evoca il contrasto tra originale e sostituto.
Una metafora della crisi greca – ed europea.
Passando attraverso la griglia razionaleggiante di Le Corbusier, simbolo del razionalismo modernista europea, volevo si sfociasse in una Grecia che tinge di nero la propria anima marmorea, candida e immacolata. Un percorso in contrasto con il lavoro di Jakob Steiner: tre tele, chiamiamole così, della stessa misura e poste a parete; tre griglie che per via di forma e materiale declinano e incarnano la struttura-simbolo della bandiera, e la disincarnano. La prima “bandiera”, un rettangolo sotto plexiglas, evoca l'origine ancestrale del simbolo, una rudimentale bandiera di iuta con un foro al centro. Nella seconda non c'è più il buco, bensì una linea nera che geometrizza e ingabbia il simbolo senza dire nulla, alterando la struttura originaria del tessuto. La terza griglia, senza più plexiglas né iuta, è tripartita da sbarre in ferro battuto, ed è la scrittura di una qualsiasi bandiera tricolore europea – di fede, di patriottismo, di inno nazionale. Le tre bandiere non sono poste alla medesima altezza di Black Athena, come quadri, bensì in maniera “sgrammaticata”, perché non sono tele ma simboli incarnati. Un dialogo per via di tensioni e non di livellamenti.
L'unico nome proveniente dal Sudtirolo è quello del fotografo Nicolò Degiorgis. Quali suoi scatti sono presenti nella mostra di Innsbruck, e per quale ragione?
Le opere di Degiorgis sono posizionate su due lati: da una parte un leporello del fotolibro “Oasis Hotel”, che racconta il viaggio dell'autore sull'autostrada nel deserto del nord della Cina, con immagini diurne e notturne di quest'arteria spartiacque tra giorno e notte. Dall'altra, otto foto della laguna di Venezia in formato cartolina, echeggiando l'oggetto più tradizionale e turistico che vi sia. Una Venezia del tutto disincarnata, non turistica, diafana, immersa nel dormiveglia dato dalle condizioni climatiche. Immagini che tematizzano inconsciamente nello spettatore l'oggetto Venezia: un campanello d'allarme affinché l'abitante del Tirolo o del Nord-est – piuttosto che il turista germanofono – ricordi una città che non solo fu propaggine dell'Impero asburgico, bensì una Venezia come paradigma del dormiveglia.