Il fascismo e le madri da conquistare
In un contesto, come quello fascista, che azzerava ogni margine di autonomia le donne assunsero - anche in Alto Adige -, oltre a quello di mogli e madri prolifiche, un ruolo pubblico, seppur circoscritto a un ambito educativo-assistenziale ritenuto adatto alle loro caratteristiche, e vennero chiamate dal regime a partecipare attivamente al conseguimento di un obiettivo: la penetrazione nazionale sul territorio. È questo il focus della corposa ricerca condotta da Alessandra Spada, presidente dell’archivio storico delle donne di Bolzano, già vicepresidente del comitato provinciale delle pari opportunità, e insegnante al liceo scientifico di lingua tedesca di via Fago. I risultati di questa indagine sono contenuti in un nuovo libro edito da Raetia “Conquistare le madri”, che esamina il processo di italianizzazione della popolazione di lingua tedesca negli asili (e non solo) e i suoi contraccolpi.
salto.bz: Professoressa Spada, “Conquistare le madri. Il ruolo delle donne nella politica educativa e assistenziale in Alto Adige durante il fascismo” è il titolo del suo libro. Cosa voleva dire nel progetto politico fascista conquistare le madri?
Alessandra Spada: Il concetto è legato a una citazione di un medico che lavorava nel dispensario lattanti tedesco in Alto Adige che tra il 1925 e il 1926 è stato italianizzato. La struttura era gestita inizialmente da donne tedesche borghesi che vennero in seguito defraudate di questo dispensario che passò all’Onair, l’Opera nazionale assistenza all’Italia redenta. Secondo quel medico era importante promuovere il dispensario perché se i figli venivano curati bene allora le madri sarebbero state propense ad avvicinare gli italiani al regime fascista. Conquistare le madri infatti voleva dire conquistare anche le famiglie.
Le mamme diventavano insomma lo strumento per promuovere la fascistizzazione e l’italianizzazione del territorio?
Sì, o perlomeno se ne aveva l’illusione.
Quale fu concretamente il ruolo di queste donne?
Il regime aveva chiamato le donne a partecipare alla vita sociale e al consenso, spingendole a estendere la loro azione dalla sfera privata a quella pubblica, pur rimanendo dentro una concezione ideologica che ne esaltava il ruolo di sposa e madre. In questo senso tre istituzioni ebbero una funzione sostanziale: l’Onair, l’Opera nazionale assistenza all’Italia redenta, l’Onmi, l’Opera nazionale maternità e infanzia, e i Fasci femminili in cui le donne troveranno molto spazio, anche in Alto Adige. All’interno di questi enti, donne italiane, per lo più giunte sul territorio altoatesino dopo la sua annessione all’Italia, furono chiamate a partecipare al progetto di italianizzazione della popolazione locale di lingua tedesca negli asili infantili e in altre strutture educative rivolte alle giovani generazioni e alle future madri. L’Onair operava solo nelle terre redente - Venezia Tridentina e Venezia Giulia - per aiutarle a risollevarsi dai gravi danni subiti in seguito al conflitto con un progetto di assistenza nel campo educativo e igienico-sanitario a favore della donna e della prima infanzia. In Alto Adige l’Onair ebbe un ruolo importantissimo. Era costituito prevalentemente da figure femminili, le direttrici dell’ufficio organizzativo erano tutte donne, così come le maestre, che erano spesso suore perché nelle valli vedere insegnanti laiche faceva a volte storcere il naso. L’Onair fu fondato nel 1919 dalla duchessa Elena d’Aosta che aveva partecipato alla prima guerra mondiale come crocerossina. In Trentino l’ente iniziò a operare subito, nel ’19, per aiutare donne e fanciulli, fino alla nascita dell’Onmi, nel ’25. In Alto Adige la questione della lingua era fondamentale: bisognava cominciare a italianizzare questi territori e già dal ’21 la priorità era occuparsi degli asili.
Per il regime fascista conquistare le madri voleva dire conquistare anche le famiglie
Il primo asilo dell’Onair dove e quando nacque?
A Bressanone, nel 1921. Va detto che a sud di Bolzano, nelle zone di Egna, Bronzolo e Salorno, la situazione era tesa da tempo, molte persone di origine trentina erano arrivate in quei luoghi già nell’800 per lavorare. Erano aree tedeschizzate, secondo l’opinione italiana, per questo motivo furono imposti immediatamente, ancora prima dell’avvento del fascismo, una serie di asili al posto di quelli tedeschi (o in concorrenza con questi).
Come cambiarono le cose con l’arrivo del fascismo?
L’Onair diventa il braccio operativo del fascismo nel settore dell’educazione prescolastica e parascolastica in Alto Adige, uno strumento che agisce nella provincia in maniera molto organizzata e molto mirata a italianizzare il territorio. L’Onair sviluppa in pochi anni una fitta rete di asili italiani in tutto l’Alto Adige e collabora alla chiusura di quelli tedeschi.
Come descriverebbe il compito che attendeva le maestre destinate agli asili infantili italiani dell’Alto Adige?
Un compito difficile. Per questo l’Opera organizzò per loro dei corsi di formazione. Nell’ottica del fascismo le maestre dovevano risultare le vere madri per i bambini. Per formarle al meglio nel ’24 il regime chiama a operare a Bolzano le sorelle Rosa e Carolina Agazzi, pedagogiste di fama nazionale, che avevano elaborato un metodo pedagogico estremamente moderno per l’epoca. Le due sorelle arrivano sul territorio per dirigere gli asili italiani e per aiutare a italianizzare quelli tedeschi. Mandano in pensione le maestre tedesche. Rosa e Carolina Agazzi assolvono le funzioni ispettive e di controllo su tutti gli asili infantili della città e presso l’asilo “Principessa Mafalda“ di Bolzano viene istituita una scuola di tirocinio diretta dalla stessa Rosa Agazzi affinché tutte le nuove maestre destinate agli asili della Provincia vengano iniziate al suo metodo pedagogico.
L’asilo non è dunque solo un luogo di custodia dei bambini ma un circuito di formazione vero e proprio.
Esatto, e questi asili venivano segnalati a livello nazionale come istituti modello. Ai piccoli venivano impartiti i primi concetti linguistici, matematici, ma si insegnava loro anche a lavarsi, apparecchiare la tavola, insomma a essere il più possibile attivi.
Sul fronte della politica assistenziale l’Onair collabora con l’Onmi istituito a livello nazionale per la tutela della madre e del fanciullo. L’Onmi apre numerosi dispensari lattanti in varie località altoatesine, dove le mamme portano i bambini per le visite pediatriche, e fungono da misura preventiva per la mortalità infantile che allora era molto alta. L’ente istituisce poi consultori pediatrici e ostetrici e attua sul territorio altoatesino una forte campagna a favore dell’allattamento materno.
Quali altre funzioni ebbe l’Onmi?
Promosse anche in Alto Adige politiche di incremento demografico secondo le indicazioni date dal regime e che ebbero le loro manifestazioni più significative nell’organizzazione, a partire dal 1933, della Giornata della madre e del fanciullo, istituita alla vigilia di Natale per premiare le madri più prolifiche, e nell’assegnazione dei premi di natalità e di nuzialità. In provincia di Bolzano le madri premiate erano prevalentemente donne sudtirolesi, ciò fece sì che il regime assegnasse a questi riconoscimenti pubblici anche un’importante funzione di penetrazione “nazionale” poiché, attraverso la premiazione e la valorizzazione delle madri tedesche prolifiche, puntava ad accrescere il consenso verso il regime e cercava di avvicinarle alla “nuova nazione”. Ruolo basilare nel promuovere e attuare le politiche di tutela alla maternità e all’infanzia dell’Onmi lo assunsero, soprattutto con il passare del tempo, le patronesse, il cui numero aumentò considerevolmente negli anni Trenta, con il coinvolgimento di esponenti dei Fasci femminili, i quali, a loro volta, videro incrementare progressivamente le proprie sezioni anche in località minori del territorio altoatesino.
Nell’ottica del fascismo le maestre dovevano risultare le vere madri per i bambini
E così entrano in gioco i Fasci femminili.
In Alto Adige nascono tra la fine del ’27 e l’inizio del ’28 e le persone che contribuirono alla loro costituzione erano donne italiane ideologicamente in linea con l’orientamento del partito. Facevano attività assistenziale, ma, per loro stesso dire, non avevano ruoli politici, almeno a Bolzano. Organizzavano colonie estive per i bambini e la “Befana fascista”, che non consisteva solo nel consegnare un premio il 6 gennaio ma si inseriva in una politica assistenziale più vasta. Significava andare a trovare le famiglie povere, capire di cosa avevano bisogno i bambini. E i regali (scarpe, mantelline e via dicendo) venivano collezionati presso i negozi, sotto forma di donazioni, in base alle esigenze espresse dalle famiglie più povere individuate dai Fasci femminili che per loro organizzavano mense o distribuivano pacchi alimentari, soprattutto d’inverno. In più c’era il cosiddetto “Nastro bianco”.
Ovvero?
Ai bambini che nascevano le donne del Fascio portavano un nastro bianco e ai bambini più poveri veniva dato anche un corredino. Le famiglie benestanti di solito donavano alla donne fasciste una somma che poi loro usavano per comprare questi corredini.
E nel frattempo diffondevano l’ideologia fascista.
Molte di loro furono coinvolte nella promozione dell’ideologia fascista sulla donna, collaborando professionalmente o a titolo volontario a queste attività assistenziali del regime. Anche nel caso dei Fasci femminili il compito era quello di conquistare le madri, distribuire corredini, per esempio, era un modo per cercare di accattivarsi le simpatie delle donne e quindi delle famiglie e di concorrere nel contempo a quella “penetrazione nazionale” di cui il partito parla sempre. Per i giovani, poi, i Fasci femminili organizzavano corsi di economia domestica, taglio e cucito, i “pomeriggi fascisti” con attività sportive finché poi, alla fine degli anni Venti, il partito toglierà loro la politica giovanile per assegnarla all’Opera nazionale balilla.
Chi erano esattamente queste donne?
Facevano parte della borghesia, imparentate con gli uomini della classe dirigente italiana inviata in Alto Adige per occupare posti di rilievo nell’apparato burocratico pubblico e partitico locale. Oppure erano insegnanti, soprattutto nelle località più periferiche della provincia. La presenza di queste donne all’interno dei Fasci femminili non è comunque costante, si fermano notoriamente un paio di anni sul territorio e poi si trasferiscono altrove.
Nessuna di queste maestre si pose il problema se fosse giusto o meno procedere all’italianizzazione. Nessuna si domandò se intervenire in maniera così radicale sradicando una cultura e una lingua fosse opportuno
In che modo reagirono le donne tedesche contro le attività volute dal governo totalitario?
Inscenarono grandi proteste. Quando nel ’23 entrò in vigore la legge Gentile che italianizza le scuole (e gli asili nel ’24) i giornali di lingua tedesca non erano ancora stati chiusi. Questi invitarono le madri tedesche, attraverso degli articoli molto forti, a protestare contro la chiusura delle scuole tedesche. Dunque ecco che di nuovo le donne occupano una posizione centrale, e le madri in primis perché sono loro che trasmettono la lingua e la cultura alle nuove generazioni. I personaggi politici di spicco, ma soprattutto i giornalisti e il canonico Michael Gamper, invitarono alla mobilitazione. Le donne allora, nell’ottobre del 1923, scesero in piazza, manifestarono davanti alla prefettura a Bolzano. Andarono a Roma, scrissero lettere al presidente del consiglio Benito Mussolini, a cui chiedevano udienza, raccolsero firme in tutta la provincia per scongiurare la chiusura delle scuole tedesche.
E come finì?
La protesta andò avanti per circa un anno, dopodiché queste donne capirono che non avrebbero ottenuto nulla. A quel punto, un anno dopo il primo appello, a mezzo stampa, a scendere in piazza, il canonico Gamper fece un secondo appello e consigliò alle madri di chiudersi in casa e di organizzare nelle proprie cucine, nelle proprie stube, una scuola tedesca in modo che la lingua e la cultura potessero essere insegnate privatamente all’interno delle famiglie. Nacquero così le Katakombenschule, le “scuole nelle catacombe”, clandestine, che poi, come noto, saranno perseguite. Da quel momento spariscono tutte le tracce documentali di queste donne che ufficialmente smisero di protestare.
Cosa le ha fatto più effetto scoprire nel corso della sua lunga ricerca?
L’enorme mole di quelle firme raccolte (ne verranno inviate oltre 50mila a Roma) in pochissimo tempo dalle donne tedesche. Non c’era mica internet, eppure la rete di queste donne era organizzatissima. Un’altra cosa che mi ha colpito è il fatto che le giovani maestre dell’asilo, che venivano dal Trentino e dal nord d’Italia in generale, si avvicinavano all’Alto Adige con un certo timore. Quando entravano negli asili tedeschi che venivano poi italianizzati rivelavano le loro paure e le loro ansie. Significativo questo aspetto umano. Dall’altra parte però nessuna di queste maestre si pose il problema se fosse giusto o meno procedere all’italianizzazione. Non passò per la mente nemmeno alle Agazzi che non erano fasciste di formazione. Nessuna si domandò se intervenire in maniera così radicale sradicando una cultura e una lingua fosse opportuno. E in questo atteggiamento, io credo, prevalse il concetto stesso di nazionalismo ancor più che di fascismo.