Flee
Oltre ad aver già fatto incetta di premi prestigiosi Flee si è messo pure un record in saccoccia: è la prima pellicola a essere stata nominata agli Academy Awards 2022 nelle tre categorie Miglior Film Internazionale, Miglior Film di Animazione e Miglior Documentario. Ed è anche il terzo film a entrare in competizione come miglior documentario e miglior film straniero dopo Honeyland e Collective, il documentario d’inchiesta del 2019 diretto da Alexander Nanau sul colossale scandalo sanitario romeno che andrebbe recuperato DI CORSA.
Cos’è
Flee (Flugt in lingua originale), che in Italia esce il 10 marzo, è il documentario animato - una fusione di mezzi espressivi, in verità, dato l’utilizzo di filmati d’archivio che fissano lo sfondo politico più ampio - del regista danese Jonas Poher Rasmussen. Il film racconta la storia vera del suo amico di lunga data Amin Nawabi (uno pseudonimo per proteggere la reale identità del protagonista), giunto 20 anni fa come minore non accompagnato in Danimarca dall’Afghanistan.
Amin e la sua famiglia lasciano frettolosamente il loro paese d’origine alla fine degli anni ’80, poco prima che i mujaheddin prendano il potere, rifugiandosi nella poco accogliente Russia post-sovietica fra funzionari corrotti e collettiva diffidenza. Dopo varie peripezie e viaggi strazianti Amin riesce ad arrivare a Copenaghen separandosi dalla madre e dai fratelli.
Oggi Amin ha 36 anni, è un affermato docente universitario e sta per sposarsi con il suo compagno Kasper. Flee beneficia del rapporto che esiste tra il regista e il suo soggetto: per la prima volta dopo anni, infatti, Amin decide di raccontare l’odissea giovanile che ha vissuto e i segreti del suo passato di rifugiato al suo migliore amico. “Era importantissimo che tutto sembrasse autentico - ha dichiarato il regista in un’intervista -, eravamo entrambi microfonati e abbiamo registrato il rumore d’ambiente. La maggior parte di quello che si sente è la prima volta che [Amin] ha condiviso la sua storia con me. C’è molta emozione nella tua voce quando condividi una storia con qualcuno per la prima volta”.
Com’è
Finito il rodaggio nel genere “cartoni-per-grandi” mediorientali fatto con Persepolis, Waltz with Bashir e The Breadwinner, con Flee ci troviamo di fronte a un’operazione ancora più peculiare: qui il “trucco” dell’animazione dà la possibilità al protagonista del film, Amin, nascosto da un nome falso e da sembianze cartoonesche, di rivelare la sua storia per intero, risvegliando ricordi a lungo repressi e rielaborando una narrazione diversa da quella che ha dovuto sostenere per anni.
Tra momenti di angoscia e di intensa commozione, ma anche di grande tenerezza, il film ci immerge nella profondità del trauma dei rifugiati e punta i riflettori sui sistemi messi in atto per spogliare le persone della loro dignità.
Il film è diviso in due sezioni. La prima è ambientata nell’appartamento di Amin, dove per la maggior parte dei segmenti delle interviste giace supino quasi come fosse una sessione di terapia, con la macchina da presa sospesa sopra di lui che racconta la sua quotidianità e la sua volontà di inseguire le opportunità di carriera, con la speranza che il successo professionale alleggerisca il senso di colpa per i sacrifici fatti dalla sua famiglia; mentre la seconda è un flashback della sua infanzia e del suo viaggio in Danimarca, intersecando inevitabilmente la sua esperienza di rifugiato al tema della sessualità e dell’accettazione (Amin dice a Rasmussen che, in Afghanistan, non esisteva una parola per “gay”). Nelle scene del presente l’animazione si adatta alle espressioni della vita reale di Amin, ma nei flashback diventa più versatile: sfumature di carboncino per innescare la memoria, colori ultraluminosi per rappresentare l’euforia, e un omaggio a Take on Me degli a-ha.
Il risultato finale è un atto di condivisione incredibilmente intimo. Di quelli che potrebbero minare lo strapotere Disney nella categoria Miglior Film di Animazione ai prossimi Oscar, per capirci. Non succede, ma se succede…