Culture | il ricordo

Correnti gravitazionali, e altri voli

Muore Franco Battiato, con lui se ne vanno mille milioni di storie e di parole e di poesia. E noi non lo ringrazieremo mai abbastanza.
Franco Battiato
Foto: rabendeviaregia on Flickr

Insomma, era da tempo nell’aria, ed alla fine è successo, è morto Franco Battiato.

Nessuno stupore, ma non è un caso che aprendo Facebook la mia timeline sia inondata dal dispiacere, di tanti. È vero, non fa troppo testo, succede sempre quando muore qualcuno.

Per quel che mi riguarda, Franco Battiato è una presenza indiretta e diretta nella mia esperienza musicale e non, sin dalla prima infanzia. Si accende una serie di flashback, di qualcosa che è prima un sapore, una sensazione, fino a diventare, quello sì, conoscenza diretta, che diventa più conflittuale con la mia crescita, l’ampliamento dei propri orizzonti. Che è poi se vogliamo l’approccio alle piccole cose di “Mal d’Africa”, un omaggio di sensazioni e frammenti di ricordi lontani, la pennica postprandiale, uno sfocato nostalgico molto chiaro, lo stesso di quell’automobile con un bambino in gita con la famiglia verso qualche avventura fuori porta:

 

L’autoradio che suona Cuccuruccucu, una pubblicità del Karaoke di Fiorello con il centro di gravità permanente (ricordo nitido eppur surreale, a pensarci ora, eppure possibile per chi seppe coniugare il pop con il “sublime”), la collaborazione con i CSI in Linea Gotica, le compilation memorabili, Manlio Sgalambro che recita Callimaco, il concertone del I maggio del 1997 credo dopo l’uscita de l’Imboscata con uno del pubblico che lo contesta per un ritardo (credo) e lui stupito che dice “non è colpa mia”.

 

Gommalacca piuttosto che altre cose più riflessive e tremendamente noiose, con line up orchestrali, pop, etniche o ipersperimentali, chissà perché nel mucchio mi viene in mente il  Morgan bassista, che di Gommalacca è una delle cose più belle. Key Sandvik (è lei no? Avevo rimosso Key Sandvik) che chiede quello che pensano un po’ tutti, a un certo punto della sua carriera, e cioè: ma cosa vuol dire “L’ombrello e la macchina da cucire”, e lui che svicola “Bisogna chiederlo a Sgalambro”, “È una canzone”.

 

Un tour a fine anni ’90 a cui non pensai minimamente di andare, perché insomma, a un certo punto dopo una scorpacciata di Battiato, me n’ero disaffezionato. Eppure contemporaneamente potevo decantare il cd 1 della Studio Collection (selezione credo definitiva, anche se mancano le chicche) con un’amica, senza entrarne in contraddizione, e lui su un palco a poca distanza che faceva il cretino cantando Summer on a solitary beach sdraiandosi su lettini a sdraio su spiagge scenografate, e gli occhiali da sole, nemmeno un po’ ieratico e semmai scanzonato nel recupero dei suoi classici: ma è la stessa persona? C’era il servizio del tgregione, mica io. Basterà una versione televisiva degli anni ’80, meno scanzonata ma in playback,.

 

A questo punto meriterebbe la menzione d’onore una delle cose più meritevoli del Battiato pubblico, il santone spocchioso che dopo le macerie dei bombardamenti Nato se ne va a Baghdad per fare un concerto, per l’Iraq, per solidarietà. Concerto peraltro bellissimo, e onestissimo. Il Battiato di “Un’estate al mare”, capace di rileggere il classico del lifestyle repubblicano dal punto di vista delle prostitute di strada senza mai uscire da un confortante alveo pop, è anche quello che canta in arabo, cita il Tannhäuser di Wagner, parla sempre di posti lontani, di pasque etiopi e di dervisci rotanti, ruota pure lui, e appunto, figlio di questa curiosità multiculturale, se ne va a Baghdad, a casa di quel Saddam che era già salito sul podio del nemico mondiale nr.1, seppur sconfitto ancorché non deposto, pur senza volerne prendere le parti. Un coraggio, questo sì, epico e in aperto contrasto con lo spirito del tempo.

 

Più tardi avviene da parte mia la scoperta del disco disconosciuto, Foetus, disco pazzerello con momenti di incredibile lirismo, sperimentale e lirico. Più strano, più vero, un disco sincero.

 

Certo, nei momenti di disconoscimento si stigmatizza il pretenzioso di Battiato, che uno come Bollani ha saputo anni fa motteggiare (affettuosamente) a modo suo, omaggiandolo di fatto, l’apparato erudito del corpus battiatiano, erudito per davvero, che a seconda dell’umore e del momento può essere cifra stilistica meramente formale o in effetti aprire porte altre e infinite su momenti altresì banali, come ne Gli uccelli, dove il volo di qualche piccione diventa esso stesso indecifrabile geometria dell’universo.

 

Si scherza, ho idealizzato Battiato durante la mia adolescenza, finendo poi per schernire l’io adolescente che idealizzava Battiato, finendo per scherzare l’io disilluso che scherzava l’adolescente recuperando non solo il Battiato acclarato, ma anche quello mai ascoltato, finendo per amarlo ancora di più, seppur non tutto, e non sempre. Comunque, quante ore, e ore, e ore, passate in sua compagnia. E poi uno dei grandissimi vantaggi di Battiato, è che Battiato si canta, si canta insieme, a squarciagola, in coro. Io personalmente lo canto benissimo, ma vabbè.

 

Gli uccelli che volano, e la meraviglia delle aquile che camminano, una delle mie canzoni preferite. “Un tempo passavo ore in palestra”, il senso della meraviglia.

 

Battiato autore o no? Battiato colto o artista del collage? Sperimentale o artatamente fuori dagli schemi? Internazionale o provinciale? Alla fine, chissenefrega, a ognuno il suo, io dopo tanto meditare, l’ho visto come un personaggio che anche se non sembra, era proprio così, mica fingeva. Memorabile la sua partecipazione a “Turisti per caso” in Nepal (allego la parte I, la parte II ve la trovate da voi).

 

O di quella volta che divenne assessore alla cultura di Crocetta, simbolo di un rinascimento siciliano, finendo per doversi dimettere poco la famosa dichiarazione delle “troie in Parlamento”, detta in un Parlamento. Che poi, diciamolo, il refrain de la “povera patria”, la sua autoelezione a vate nel marasma di un caos squallido e degradante, molto della poetica di Battiato non mi ha mai entusiasmato, eppure era un approccio in sostanza estremamente coerente e in linea con un personaggio che era sì estremamente elitario nella manifestazione della propria erudizione, eppure al contempo capace di parlare a tutti senza snaturarsi, nonchè di rendere contagiosa quella che in fondo era curiosità e apertura al mondo, tutto. Sennò appunto il Karaoke di Fiorello non se lo sarebbe mai fumato, per dire.
Comunque uno che non è che si sia compromesso con il sistema, eh…

 

Ascoltando il centro di gravità permanente mi sono sempre ripetuto; caro Battiato, a me i cori russi e il punk inglese piacciono moltissimo, e tu sei un brutto corvaccio (ce l’aveva un po’ del corvo, quantomeno negli anni recenti, esteticamente dico). Certo poi quando mi sono ritrovato davvero per la Prospettiva Nevskij ho sempre canticchiato questa canzoncina qui (non è vero, ma facciamo finta di sì), eppure c’è davvero questo riassunto della russità senza i cori, sovietica, ma da altri punti di vista, discreta e chiaroscurale. “E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”. (accipicchia).

 

Che dire dunque, sono milioni e centinaia di milioni, le cose che si possono dire per salutare Franco Battiato. Ho sempre trovato commovente e struggente la storia di Shackleton, la voce di Sgalambro a introdurre con la sua “catastrofe pissicocosmica che sbatte contro le mura del tempo”, la storia (me l’ha insegnata lui accidenti) dell’”audace capitano Shackleton”, il finale elettronico, la vastità del mondo, la caducità dell’esistenza, si sopravvive mangiando cani, eppure si vive, si attraversa il pak e il mare in tempesta sulle canoe, e i crepacci e poi si muore, “Stille Dämmerung”, però dopo, magari, quando arriva il momento.

Grazie. E ancora grazie.