Prima di Brest Litovsk
La sensazione ricorrente nella Kolyma è il freddo. A parte quando è estate e fa caldissimo, nella Kolyma fa sempre freddo. Le stufe alimentate a non si sa, non scaldano. Le persone non hanno nulla con cui coprirsi. Fa sempre freddo, ma in particolare fa davvero freddo quando uno sputo congela prima di toccare terra. Allora sono guai.
Il freddo polare della Kolyma è poi il freddo estremo dell’anima dei deportati, esseri che lottano per mantenere una scintilla di umanità in un contesto disumano e disumanizzante dove di fatto tutti muoiono, o quantomeno, tutti da un momento all’altro, possono morire, per un capriccio di un caso cieco e morboso, lo stesso caso che permette all’autore Varlam Tichonovič Šalamov invece, di sopravvivere a dieci anni di deportazione.
L’umanità dell’autore, il freddo gelido, e le situazioni assurde, ai limiti del grottesco, dicono molto di quale distorsione storica possa essere stato lo stalinismo, le purghe, il culto della morte, quella morte a nome del proletariato, che non si poteva criticare per non ostacolare la rivoluzione comunista e l’internazionalismo, anche a fronte poi del socialismo in un solo paese, e di come poi l’imperialismo russo avesse sopraffatto completamente il concetto rivoluzionario, e di come l’ortodossia abbia di fatto soffocato il socialismo reale nella sua culla.
Stalin, che mandava a Tito un sicario dietro l’altro, e solo una macchina militare efficiente e perfetta come quella jugoslava, temprata dalla lotta al nazismo, potè salvare la vita a Josip Broz. Il quale scrisse poi la sua letterina a Stalin in cui gli fece notare che al prossimo sicario, avrebbe iniziato anche lui a inviare sicari, ed i sicari non vennero più.
A Praga, a Budapest, non furono così fortunati.
I Kulaki non furono così fortunati, e dire che meno di un secolo prima nella Karenina si poneva il tema dell’economia e delle società di campagna, di questo medioevo fuori tempo e fuori porta che portava a pensare anche un Karl Marx che già, una rivoluzione socialista in Russia era da escludersi, poi certo, senza guerra mondiale, come avrebbero fatto a trovare lo slancio, i rivoluzionari?
La guerra, la prima guerra, gli albori, il placido Don, il cui primo volume è intriso di un antimilitarismo viscerale, che da solo dovrebbe come dire bastare ai guerrafondai di oggi, quelli che rivendicano alle Russie i loro territori perduti e non si scompongono di fronte all’aggressione militare di uno stato sovrano. La conversione di Grigorij Melechov alla causa rivoluzionaria in seguito alla carneficina in sprezzo al rispetto della vita, di ogni vita, nel libro caro a Stalin e mito fondativo dell’URSS.
Ai guerrafondai di oggi, quelli che rivendicano alle Russie i loro territori perduti e non si scompongono di fronte all’aggressione militare di uno stato sovrano, dovrebbero bastare la prima guerra, gli albori, il placido Don, il cui primo volume è intriso di un antimilitarismo viscerale.
Per quel che mi riguarda, il miglior antidoto a qualsiasi tentazione filo putiniana viene sempre dalla Politkovskaja, un faro di umanità che si oppone al gelo dello sguardo bovino del tiranno. La prima a parlare di Cecenia, ad andare in Cecenia, che piangeva di gratitudine di fronte al colonnello sanguinario che le offriva una doccia, spiegando così meglio di mille resoconti, come era la situazione in Cecenia, per non parlare del teatro Dubrovka, di Beslan, delle varie tane del mostro cioè, o di quel soldato di leva alto e bello, troppo bello, che seppe suscitare l’invidia dei superiori che lo costrinsero ad indossare stivali troppo piccoli fino a indurlo al suicidio, perché nell’esercito russo di Putin i soldati morivano a centinaia anche senza una guerra come pretesto.
Nella Варшавянка, canzone rivoluzionaria polacca dove la versione russa rimuove ogni riferimento a Varsavia salvo il titolo, la guerra è di classe. Marcia il popolo contro i parassiti del popolo dei lavoratori. Quel sogno socialista che si vede dappertutto, tracciando le varie epoche del URSS, che ha ammaliato generazioni di ribelli con un’operazione di marketing capace ancora oggi di astrarre la Russia di Putin dal suo DNA esplicito ed esplicitato, e di trasformarla nella Russia di Babel, nella cavalcata a caccia dei bianchi, nella lotta contro il male. Magari massacrando di botte persone omosessuali in corteo al pride di Mosca.
A prescindere da tutto, dai gulag, da Breznev, dal muro di Berlino, dalla devastazione ambientale e sociale, ma soprattutto a prescindere da cose dette esplicitamente, come il bell’inno russo di cui rimane la musica e cambia il testo in salsa patriottica:
“Russia — il nostro paese sacro,
Russia — la nostra terra amata.”
Il vecchio, sovietico e patriottico in salsa antigermanica, iniziava invece:
“Un'unione indivisibile di repubbliche libere
La Grande Russia ha saldato per sempre.”
Prima ancora c’era direttamente l’Internazionale, e prima, lo zar, che insomma, senza prima non ci sarebbe stato un poi, il che poi vale anche per il patriottismo panrusso attuale.
Ad esempio la collega russa, in verità tatara, che anni fa si lasciò andare ad una feroce invettiva contro i tedeschi tutti, aveva negli occhi la furia di Alexander Nevskij, la celebre scena iniziale del film con i maledetti cavalieri teutonici che bruciano Pskov, i bambini di Pskov, i loro amici, un’epica che affonda le radici nei tempi dell’espansione germanica a est, laddove la parola slavo andò a creare la parola schiavo, la gloriosa resistenza e la riscossa, un mito fondativo che vede nella riscossa il suo elemento cardine, come anche l’emulazione, senza la quale non sarebbe esistita alcuna Russia. Ed eccolo lì, il Putin che pare un Lenin pur se nel mentre dice che Lenin era un cretino ed il bolscevismo una maledizione.
Putin che pare un Lenin pur se nel mentre dice che Lenin era un cretino ed il bolscevismo una maledizione
La cocciutaggine filo russa a prescindere non guarda a queste cose, può permettersi di essere filoputiniana fingendo di condannare il putinismo, che poi vien da dire che bisognerebbe rileggersi anche il Limonov di Carrère, che nelle fasi della vita alterna numerose posizioni rispetto alla figura del capo, e forse non c’è nulla di più russo di Limonov.
Ma poi la stessa cosa è successa millemila volte nella galassia comunista, nei partiti che non potevano prescindere da Mosca, almeno fino a Berlinguer, ma comunque vent’anni in ritardo rispetto ad esempio ad un Calvino.
E succede tanto più tramite la continua rimozione: rimane Putin a cavalcioni di un orso, Putin sulle magliette, sulle magliette di Salvini, sulle tazze, sui canali tv, nella devastazione dei nuclei storici delle città e nella costruzione di un mito a prescindere, la grandezza di Molotov che il libro “La lanterna magica di Molotov” impiega parecchie pagine a demolire, eppure, basta il nome “Molotov”, inossidabile, più di una realtà dimenticata, più delle purghe, padre fondatore.
Dunque da un lato le stelle rosse e la rivoluzione, le deportazioni di massa ed il sol dell’avvenire, viene in mente Vita e Destino, con le maiuscole, perché la Russia sovietica è tutta lì, nella società della paura e in Stalingrado. È in delatori e delati che si incontrano per strada e fingono di non conoscersi, perché il gulag prosciuga anche il risentimento.
Oppure nel poliziotto Danko, onore delle armi di Hollywood al nemico di sempre, che scorge delle spogliarelliste nella tv del motel e biascica marmoreo “capitalissmoh”.
Ma è anche nel maledetto impero russo, e viene da chiedersi cosa penserebbe un Eric Hobsbawm di fronte al ritorno di un’età degli imperi, eppure la chiusa del Secolo Breve lasciava intendere che tutto poteva succedere, ed in effetti, tutto sta succedendo, imprevedibile eppure già scritto. Un salto nel buio, scriveva.
Viene in mente Vita e Destino, con le maiuscole, perché la Russia sovietica è tutta lì, nella società della paura e in Stalingrado.
Eppure ancora la questione dei russi prigionieri di nuove patrie quando la madrepatria si è sfaldata, e questo sentimento ricorrente e prevalente nelle persone che hanno vissuto o sono vissute a ridosso dello spazio russo, nell’incubo della colonizzazione, nella Moldova semi indipendente dove il russo doveva rimanere lingua ufficiale a fronte di una popolazione a grandissima maggioranza rumena, lo stato più povero d’Europa a cui il generale Lebed, che vuol dire cigno, tolse quel poco di risorse per creare uno stato oligo-mafioso, però con la falce e martello sulle monete. Nella paura, di fatto, di un vicino tenebroso e incombente. Nel ricordo di Katyn e del ghetto di Varsavia, nel trauma del 1968 e nel terrore di quanti non poterono che fuggire di fronte all’incedere dell’Armata Rossa. Quella tesi che provò qualche anno fa a ribaltare Paolo Rumiz nel suo Trans Europa Express, primo a cercare di indicare il mostro russo, sì, ma anche a fare autocritica sull’approccio europeo, e comunque nel suo libro Rumiz chiariva in più passaggi tutto il suo astio al sistema di potere russo, perché poi lui di fatto si interfacciava con umilissime e ospitalissime persone poverissime e bistrattate da un regime composto da ricchissimi e avidissimi.
La stessa ospitalità che spinse moltissimi soldati dell’Armir a fermarci in qualche izba e a non tornare più a casa, seppur poi si vada a commemorare a Roma Nikolaewka, la battaglia per la sopravvivenza di un esercito in rotta dopo lo sfondamento del Don.
Ne parla Il sergente nella neve, di Nikolaewka, non nei termini in cui qualcuno ha voluto vederci una giornata in onore di un corpo militare e punto.
Che dire. Il fascino, e la morte. L’orrore che genera altro orrore. La cupezza dell’alba del ‘900 su San Pietroburgo, il sangue e i decabristi, e l’anticapitalismo del capitalismo.
È un gran casino in effetti, ma il putinismo, lo sciovinismo ebete, e tutte le altre posizioni indifendibili, sono lì tra le pagine, che ci guardano, male probabilmente.
Tutte le immagini sono di Nicola Arrigoni