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“Il turismo non ci salverà”

L’aumento incontrollato dei locali, nel nome del turismo e del decoro, sta svuotando le città dei suoi residenti. Se la mercificazione dei quartieri passa per il piatto.
foodification
Foto: Luca Porporato

L’appuntamento con Paolo Tessarin e Marco Perucca è alle 18. “Tex”, da Torino, arriva puntuale nella milionesima stanza virtuale creata con un link. Marco, che invece si trova in vacanza in Valle d’ Aosta, ci raggiunge poco dopo. Si scusa per il ritardo ma quella che è la sua motivazione diventa in realtà un apripista alla nostra intervista: ha dimenticato gli auricolari a Torino, si è recato nel negozio di elettronica del paese per comprarne un paio ma si è trovato di fronte ad un nuovo, ennesimo ristorante. 
Un racconto, quello di Marco, che potrebbe arricchire la rassegna che ha dato vita allo spettacolo teatrale, poi podcast e ora libro Foodification - Come il cibo si è mangiato le città. Una serie di sguardi, a tratti ironici a tratti grotteschi, sull’evoluzione delle città attraverso la lente della gourmet gentrification e di come il cibo, o meglio il food,  narrato in una chiave sempre più esclusivista, stia contribuendo alla trasformazione dei quartieri ogni giorno meno adatti a chi, storicamente, li ha vissuti.

 

salto.bz: Il termine “foodification” ricalca l’ormai ben più noto “gentrification”, quel processo di miglioramento estetico del patrimonio immobiliare e dello spazio pubblico cittadino che porta tra le  conseguenze l’ascesa dei prezzi e la sostituzione dei ceti popolari esistenti con quelli di estrazione medio-alta. Cosa vi ha spinto a leggere il fenomeno della trasformazione urbana attraverso la lente della riqualificazione in chiave "gourmet"?

Marco Perucca: Un giorno io e Paolo ci siamo incontrati in uno dei tantissimi dehors che stanno spopolando a Torino e ho cominciato a chiedermi: perché la nostra città è stata invasa in così poco tempo da un numero così impressionante di ristoranti, bar e plateatici che prima non esistevano? Paolo mi ha risposto prontamente, citando Giovanni Semi, che questa è la gentrification. Da qui la spinta per provare a capire come questo processo di trasformazione urbana possa venire innescato dalla nascita di tutti questi locali, che si propongono sempre molto simili tra loro nel loro essere cosmopoliti, alternativi e, ovviamente, decisamente costosi.

Paolo “Tex” Tessarin: Da questa spinta è nato uno spettacolo, in un momento in cui la città di Torino stava subendo trasformazioni importanti dal punto di vista urbanistico e sociale. Lo storico mercato popolare del pesce si trovava sempre più assediato da ristoranti che proponevano menù di mare. Allo stesso tempo la presenza di universitari aveva innescato il processo speculativo definito studentification, che ha stravolto il mercato immobiliare e la politica urbana torinese. E quello del food diventa oggi la parte più visibile, percepibile e attraente di questo processo.

Il minimo comune denominatore esiste ed ha un nome e cognome: Oscar Farinetti

Parlando di foodification esiste un minimo comune denominatore, quel filo conduttore in grado di legare l'esperienza di Torino alle altre città italiane ed europee?

P.T.: Il minimo comune denominatore esiste ed ha un nome e cognome: Oscar Farinetti. A Torino il taglio del nastro di questo processo è avvenuto tra il 2005 e il 2006, l’anno zero della foodification: l’inaugurazione di Eataly al Lingotto - la sede storica della Fiat - in concomitanza alle Olimpiadi invernali, assieme al dibattito che si era innescato sull'insostenibilità di tutti questi grandi eventi, ha contribuito, e contribuisce tuttora, alla trasformazione dei quartieri torinesi. L’offerta che si sta creando, confermata anche dall’invenzione - a suon di lavaggi verdi e smart - di Green Pea, è rivolta sempre più a una popolazione di classe medio-alta con capacità di consumo. La retorica di fondo è che queste persone non stanno facendo un acquisto bensì un’experience, mostrando il loro presunto cosmopolitismo e apertura culturale.

M.P.: La nostra generazione è cresciuta con la consapevolezza che il grande indotto Fiat stava andando progressivamente a sparire e che il nostro futuro non sarebbe stato all’interno di una delle fabbriche o aziende collegate all’industria automobilistica. Quando ci siamo seduti a quel dehor ci siamo resi conto di quanto le amministrazioni stessero ora puntando sempre di più sul turismo e, in particolar modo, sul turismo enogastronomico. Eataly in questo ha spianato la strada, anche a livello ideologico. A Torino nasce il Mercato Centrale, su idea di Umberto Montano, che ha colonizzato completamente Porta Palazzo, uno dei quartieri più popolari di Torino. Quello che troviamo in comune con le altre città, spesso lo scopriamo direttamente da coloro che ci contattano: L’Aquila del post terremoto la stanno ricostruendo con i ristoranti, le vecchie fabbriche, i negozi storici, diventano locali con i loro dehors incorporati.

Spesso locali che hanno la pretesa di valorizzare la cucina locale, propongono un’offerta “fusion gourmet”, in cui il piatto tradizionale assume un sapore esotico. Un cosmopolitismo, spacciato per progressismo, che sembra conquistare diverse fette di pubblico. Ma quanto è sostenibile nella realtà un’offerta culinaria che presenta nello stesso piatto cibo proveniente da tre diversi continenti?

M.P. : È palese che questo tipo di offerta, frutti esotici che viaggiano per migliaia di chilometri per essere venduti in un piatto da venti euro, non sia minimamente sostenibile sotto nessun punto di vista. Eppure si continua a farne una narrazione che non corrisponde al reale. Sono sempre di più quei locali che si definiscono “tradizionali” e “autentici” senza tuttavia corrispondere al vero. A Torino, sembra paradossale, è impossibile trovare un luogo in cui ti venga servita una bagna càuda e, se la trovi, sarà un qualcosa di costosamente edulcorato rivolto principalmente a turisti.

P.T: È un’offerta che vogliono definire come un punto di incontro tra fenomeni globali e locali. Vogliamo trovare nel nostro quartiere la ricetta che abbiamo letto sul New York Times. Vengono usate etichette come “bio” e “chilometro zero” millantando una sostenibilità che di sostenibile non ha nulla. Allo stesso tempo si ignorano colpevolmente tutte quelle esperienze che invece hanno una reale attenzione al cibo e alla sua sostenibilità, che mettono al centro la relazione città-campagna, prediligendo una relazione diretta tra chi produce e chi consuma. Uno scambio diretto che non prevede, pertanto, la presenza di quegli intermediari che vendono in tutto il mondo un prodotto fittizio, una commercializzazione deleteria che utilizza etichette ingannevoli e crea un meccanismo tipicamente capitalista di sovraprofitto e cicli di produzione di fatto industriali.

 

Molti di questi nuovi ristoranti che si propongono come autentici sono in realtà delle catene presenti in diverse città italiane ed europee. In questo modo si allontana sempre di più il mito del piccolo imprenditore, della gestione familiare e dell’impresa tipicamente locale. Quali sono le ripercussioni economiche e sociali della foodification?

P.T.: Negli ultimi anni si è assistito a un processo di espulsione dei ceti popolari dal centro cittadino, seguita da una privatizzazione dello spazio pubblico. La pretesa era quella di creare il terreno fertile per la piccola imprenditoria ma in breve tempo il centro città è diventato talmente vetrina che i prezzi degli affitti sono esplosi. In questo modo gli unici che si possono permettere quegli spazi sono i grandi brand. Per quanto riguarda Torino, il centro storico è sempre stato caratterizzato da una forte presenza popolare. A un certo punto si è deciso che potesse diventare uno strumento di profitto, che la città non aveva più nulla da vendere se non il proprio territorio. Il centro doveva essere uno spazio solamente per quelli che Wolf Bukowsky definisce “cittadini di serie A”, principalmente turisti, autoctoni e studenti fuori sede con capacità di consumo medio-alta. La privatizzazione dello spazio pubblico doveva essere fermata molto prima. 

Durante la pandemia ristoranti e locali erano costantemente sotto i riflettori in quanto ritenuti i più danneggiati dalle chiusure. Con l’allentamento delle restrizioni sono paradossalmente esplosi più di prima. Sono stati aperti tantissimi nuovi locali e i dehors temporanei sono spesso diventati fissi, contribuendo a privatizzare, destinandolo al consumo, lo spazio pubblico. Come è stato possibile?

M.P.:  Tutto è ripartito molto più forte e aggressivo di prima. La valvola di sfogo una volta usciti di casa è diventata il ristorante. L’unico divertimento e l’unica occasione per socializzare sembra essere quella di andare a mangiare, anche spinti dai media che ti invogliano a provare questo e quello. Probabilmente perché la foodification si sta estendendo a macchia d’olio anche in quei locali che prima proponevano concerti, spettacoli teatrali ed eventi culturali che ora stanno sparendo per venire soppiantati dai bar e dai ristoranti. Ovviamente i fruitori rimangono sempre i ceti medio-alti.

Eccola la prevalenza ideologica: il centro città è per turisti, purché siano ricchi

Il processo di gentrification viene sbandierato dalla politica, ricevendo non poco consenso, in quanto abbellisce e imborghesisce i quartieri, seppur con risvolti sociali disastrosi. Possiamo considerare la foodification come un ulteriore strumento utile ad espellere le marginalità dal centro storico? 

M.P.: L'esempio torinese si presta ad essere ancora una volta un caso studio, in cui addirittura si è passati dall’altra parte della barricata. San Salvario, storicamente un quartiere caratterizzato da una forte presenza di immigrati, in breve tempo è diventata piena di locali. Gli affitti sono triplicati ma per chi ci vive ora diventa un problema la presenza degli esercizi notturni: l’entusiasmo per i nuovi ristoranti è scemato e si stanno costituendo i comitati cosiddetti anti movida.

P.T.: L'operazione si fa ancora più potente con i turisti. Un altro episodio evocativo è stato durante l’Eurovision di questa primavera. Buona parte della rassegna stampa locale torinese si è concentrata sul trittico di parole chiave composto da centro storico, senzatetto, decoro. Il tema era "puliamo - e sottolineo il termine puliamo - il centro città perché è la vetrina per i turisti che arriveranno per Eurovision". Eccola la prevalenza ideologica: il centro città è per turisti, purché siano ricchi. Chi visita una città ma è senza soldi viene allo stesso tempo cacciato dai gradini di una chiesa mentre mangia un panino portato da casa. Parafrasando Mark Fischer, non si riesce a immaginare null’altro che la città turistica, il centro storico come vetrina per i turisti. A nessuno viene in mente che il centro città sia dei cittadini per i cittadini, per i quali si possono organizzare concerti, feste, la presentazione dello scrittore più famoso della città. Se analizziamo i programmi elettorali delle amministrazioni comunali è difficile trovare qualcuno che faccia proposte per un centro storico da far vivere veramente agli autoctoni.

 

Cosa possiamo fare per invertire la rotta a un processo via via sempre più inarrestabile? È possibile sviluppare quegli anticorpi necessari a riconoscere e far fronte alla restrizione dello spazio pubblico a nostra disposizione?

M.P: Le nostre amministrazioni sono convinte e decise su questo tipo di economia, per questo non sono ottimista sulle possibili vie d’uscita. Si continua a dire che il futuro sarà il turismo e il food ma il turismo non ci salverà: un locale su tre chiude entro l’anno, tre su cinque chiudono entro cinque. Queste persone cosa andranno a fare? Smontiamo inoltre questa retorica che continuano a proporci senza sosta: la ristorazione non è una passione, è un lavoro. Il ristoratore è un imprenditore e come tutti gli imprenditori cerca di fare il proprio interesse e fare profitti. Ma gli effetti nefasti sulla società li stiamo già vedendo.

P.T: Ci sono forme di resistenza che i comuni possono mettere in atto volendo dall’oggi al domani. A livello internazionale, l’esperienza di Barcellona, per quanto contraddittoria e criticata dalla stessa sinistra, rappresenta un tentativo concreto di riappropriazione cittadina. Resta un segnale forte che la sindaca di un’importante città europea, una delle mete turistiche per eccellenza, affermi che bisogna dare un freno all’ondata turistica che sta invadendo la sua città. L’aspetto culturale in ogni caso resta predominante: bisogna contrastare e contraddire l’egemonia turistica. Ogni città, da Bolzano a L’Aquila, da Venezia a Madrid è diversa, com’è pensabile che tutte possano essere destinabili al turismo? Ad ogni modo, al di là della liberalizzazione Bersani che ha rimosso ogni forma di restrizione, per cui oggi è possibile trovare 17 pizzerie nella stessa via, i comuni hanno dei poteri che possono esercitare. Ci sono norme che impedivano, in chiave razzista, l’apertura di locali kebab, che potrebbero tuttavia essere usate in maniera più feconda, ponendo un freno e normando tutte queste aperture fuori controllo. Sicuramente è fondamentale una politica efficace sulla casa e di contenimento dei prezzi che limiti la speculazione e la destinazione prettamente turistica delle case dei multiproprietari immobiliari. Sono ormai numerosi i casi di città che vogliono limitare il numero di giorni all’anno in cui è possibile affittare la tua seconda o terza casa ai turisti. Insomma, per far fronte a questo fiume in piena si potrebbe cominciare con una serie di limitazioni puntuali e da applicare nell’immediato, misure che devono congiungersi a una nuova ondata culturale in grado di smontare questa monocoltura turistica. Ancora più urgente, infine, è affrontare la retorica del decoro, sempre più pericolosa e insostenibile: i senzatetto non devono dormire in centro perché arrivano i turisti? No, i senzatetto non devono dormire in centro perché nessuno deve più dormire per strada.

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Massimo Mollica Mon, 08/22/2022 - 09:09

L'analisi è davvero molto bella, e mi ha fatto venire voglia di ritornare a Torino, una città meravigliosa.
Comprendo benissimo il ragionamento, ma identificare in Oscar Farinetti l'artefice di questa situazione porta a commettere lo stesso errore che qui fanno i radical chic locali contro Benko.
Io vivo in pieno centro a Bolzano Bozen, in uno stabile di 20 mini appartamenti e sono l'unico, l'unico, che è proprietario e ci vive. Tutto il resto affitto e formula booking. E sono tanti piccoli e medi imprenditori. Il centro della città oramai è tutto così, alternato ai ricchissimi (sempre locali) che si possono permettere interi stabili. E' in questo contesto che la ristorazione si adegua. Quindi per il turista modello (quello che spende molto) si avranno prelibatezze di qualità. E non è tutto malaccio, se si pensa che qui nelle lasagne di solito ci si mette il prezzemolo e nella pasta l'erba cipollina (?).
La questione turismo non è comunque così banale. Perché il turismo porta soldi e con le tasse ci si pagano i servizi, tra cui scuole e strutture sociali. Chi li paga i servizi?
Poi per la questione casa siamo tutti d'accordo, va bloccata la speculazione. Ma nessuno lo farà mai perché ci sono troppi interessi in gioco, troppa avidità (la destra la chiama patrimoniale).
E sul degrado in centro qui da noi non vale: spaccio di droga e immondizia a go go. E nel degrado ci aggiungo tanta ma tanta indifferenza.

Mon, 08/22/2022 - 09:09 Permalink