Culture | Salto Afternoon

Corpi danzanti

Partito Alps Move, il festival di teatro danza che dura fino alla fine di novembre con spettacoli di danzatori sudtirolesi e non.
alps_move.jpg
Foto: alps move

Forse bisognerebbe smettere di leggere le presentazioni testuali di spettacoli di danza, tutto sommato sono parole che ci informano di un ipotetico mondo che vedremo o di ipotetiche storie che potremmo vedere o che dicono di voler farci vedere. Ma: se un testo si compone di parole, di che cosa si compone uno spettacolo di danza, anzi teatro-danza, come si specifica su manifesto e cataloghino del festival Alps Move che si svolge tra Merano, Bolzano, Lana, Brunico e Bressanone fino al 30 novembre con 14 date, incluse il pre-opening?

Basta guardare nel cinema quel che hanno fatto Godard e i suoi discepoli…

Il Teatro Danza è un linguaggio multimediale, corporeo innanzitutto, fatto di gestualità e porzioni di movimento ripetute, cui si aggiungono brani di musica, spezzoni di dialogo, luci, immagini proiettate, fisse o in movimento. Per far nascere un tutt’uno, completo e complesso. Sappiamo dalla storia che la danza moderna e contemporanea ha avuto diversi protagoniste e protagonisti che hanno volutamente rotto regole e convenzioni per creare altro, nuove forme, nuovi passi, nuovi movimenti, altre tipologie di coreografie. Da Isadora Duncan a Martha Graham negli Usa, da Emil Jaques-Lacroze a Rudolf von Laban in Europa, i quali nel periodo della cosiddetta danza espressiva avevano stimolato una liberazione dagli schemi per condurre a nuovi modelli da seguire. Poi, come in tutte le arti – e non solo - negli anni sessanta e settanta del secolo scorso furono segnati momenti di forte rottura e di grande innovazione, tra l’altro per esprimere anche nella danza quel non detto, quel “politically no correct” – in tutti i sensi - rovesciando i codici e favorendo improvvisazioni sulla base di un’ottima conoscenza del repertorio delle varie discipline da un lato, e dall’altro inserendo altre tipologie espressive, non ultimo il teatro e il cabaret, lavorando sul simbolico e il metaforico. Basta guardare nel cinema quel che hanno fatto Godard e i suoi discepoli…

 

Il termine teatro-danza è legato a Pina Bausch e al suo Wuppertaler Tanztheater, di fatto la radice andrebbe ricercata nel quintetto iniziale: lei, Reinhild Hoffmann, Susanne Linke, Gerhard Bohner e Johann Kresnik (morto quest’anno). È diventata “Pina” la grande antesignana di questa nuova forma espressiva, ovviamente criticata da un certo tipo di critica più conservatrice, ma sin dall’inizio le sue pièce sono state grandi successi, spesso premiati, migrando sempre di più anche nell’ambito di classici del teatro e dell’opera (basti ricordare I sette peccati capitali di Brecht Weill o Orfeo e Euridice di Gluck o Le sacre du Printemps di Stravinskij) e successivamente in creazioni ex novo ispirate nell’ultimo periodo allo scorrere della vita nelle grandi città.


Perché questa introduzione tanto lunga per parlare di tre brevi pièce svoltesi la prima sera di Alps Move? A lei, a Pina Bausch è dedicata questa edizione nel decimo anno della sua scomparsa nel 2009, e spiace che la sua figura nel discorso di presentazione sia stata ricordata unicamente da un essere stata “minacciata” (all’inizio?) per aver avuto per prima il coraggio di uscire fuori da regole e formalismi, da convenzioni di genere, puntando il focus sulla necessità di esprimere i moti emotivi interiori. Tanta acqua è passata sotto i ponti da allora, e tante sono ormai le possibilità a disposizione di giovani danzatori e danzatrici per creare le proprie coreografie. Ma bastano, per tornare al discorso iniziale, un paio di premesse teorico-filosofiche per dar corpo a una serie di frammenti di movimenti impostati sulla modalità contact, dove molto si s/volge attorno a corpi che si avvinghiano, si toccano, si lasciano e si riprendono? Unione versus separazione, unità versus separatezza, sogni versus realtà? Ohne zwei, di e con Marion Sparber, Alan Fuentes & Jasmine Fan, si basa sul concetto “due non due” nella filosofia cinese per affrontare il tema umano e non umano, sogno e vita, umanità e ambiente. C’è una grande presenza di immagini video, dove spicca la sequenza in cui una danza minimalista di mani e piedi nella sabbia di una spiaggia sfocia nel silenzio, visivo e audio. Dopo, il caos, tra sovrimpressioni di immagini e voci, momenti danzati selvaggiamente sotto la luce stroboscopica come a dimostrare una sorta di vivere accanto, al di fuori della realtà, che si arresta bruscamente nella luce chiara e ferma – attimi di percezione nell’odierna vita quotidiana di un trio di giovani formato da due donne e un uomo? Sa tanto di già visto…

 

See You 2019 della koreana Yungjung Kim vorrebbe offrire una nuova relazione tra corpo e oggetto: anche questo assolo si avvale di immagini video e di tante parole che danno l’impressione di un voler spiegare a voce ciò che si farà vedere, cercando di caricare di un senso altro e superiore – che però non viene percepito - sequenze formalmente perfette, linee di colore nella scena nuda, essendo la danzatrice di rosso vestita, che disegnano figure astratte nello spazio ideale su musiche a tratti quasi ipnotiche. Si guardano come un quadro nel suo farsi, perfette, ma prive di toccanti momenti di alta sensualità e di partecipazione emotiva.

 

A fianco di questi esercizi più formali, il duo italo-spagnolo Iosu Lezameta e Michele Fiocchi in Rughe ha presentato con ironia e autoironia un tema assai delicato nella danza, l’invecchiare. Entrambi ultracinquantenni si sono presentati come tali, “nudi”, nel loro essere alla fine - e ai margini ormai - di una carriera. Qui le immagini non erano proiettate, ma rievocate nella testa del pubblico grazie a input sonori per risvegliare una certa memoria cinematografica, per poi mimare con gesti minimi silhouette caricaturali di scene da western. Essendo nella finzione il loro lavoro quello di stuntmen su qualche set, le (poche) sequenze danzate sono più esercizio fisico per tenersi in forma. Non mancano battute da cabaret riferite alla difficile sopravvivenza in questo mestiere e il rigenerarsi con una birretta estratta dal frigo portato in scena come un risciò; la scena poi si evolve in un duello da fumetto creato con figurine apparse magicamente da contenitori di cibo. Cibo per l’anima – per i nostri eroi, grandi risate per il pubblico. Peccato che questa, a tratti meravigliosa, sintesi ironica di un eccessivo carico di senso di certe performance artisticamente povere, non mantenga la tensione promessa fino in fondo, mancando di accenni a una perduta bravura nel movimento e di un ritmo perfetto nelle gag. Ciononostante l’intera pièce si regge sull’interrogarsi riguardo al senso della vita e dell’arte, in uno scenario fatto di luci e rimandi immaginari.