Culture | Il libro

Il sogno del backyard

Un saggio di Mattia Ferraresi spiega nel dettaglio perché Donald Trump ha vinto le elezioni americane. E cosa adesso ci aspetta.
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Foto: salto

Soprattutto dopo la sua elezione, anzi soprattutto nei due brevi periodi anteriori e posteriori alla sua elezione, ché anche la velocità con la quale si plasma e si esaurisce l'attenzione è indifferente al clamore della notizia, innumerevoli articoli di quotidiani, di riviste e ancora più numerosi commenti diffusi sui social network si sono affaticati a rispondere a una sola domanda: com'è potuto accadere che uno come Donald (“The Donald”) Trump sia diventato prima il candidato finale dei Repubblicani e poi sul serio il nuovo presidente degli States?

Chi volesse avere una risposta, se non esaustiva, certamente articolata, può consultare il libro di Mattia Ferraresi, che al “fenomeno Trump” dedica 157 pagine di smagliante e opportuna intelligenza (in realtà è uscito qualche mese fa, ma si gusta quasi meglio ex post, adesso insomma che l'esigenza di capire si è fatta più marcata). L'autore – si legge nelle note di copertina – è un giovane giornalista modenese che “vive a New York da quando ancora si fumava a Central Park”, il quale aveva già fatto uscire in precedenza un paio di monografie sulla politica statunitense, tema che evidentemente conosce assai bene. La febbre di Trump è scritto in modo brillante e permette di compiere attorno al Tycoon dai capelli improbabili un tour panoramico: dalle origini, che affondano ovviamente in una storia di immigrazione e di colossali fortune imprenditoriali (accumulate in primis grazie all'abbrivio dato dal padre, Fred), fino alle soglie del trionfo politico, quando cioè il “trumpismo” – definito “il lettino dello psicanalista di una nazione bipolare” – ha portato il suo originale esponente a diventare l'inquilino della White House.

Tra le tantissime cose salienti che si comprendono leggendo il libro, una merita senz'altro il modesto focus della mia piccola recensione. “Deve essere molto ampia – scrive a un certo punto Ferraresi – la voragine fra la visione dell'élite e i sentimenti viscerali di una maggioranza silenziosa se Trump è riuscito a rompere un meccanismo di cooptazione che pareva stabilito in modo definitivo”. Ferraresi dedica un intero capitolo – il secondo, intitolato “Viaggio al centro della mente di Trump” – a spiegare perché un tizio qualificato da tutti come campione dell'anti-intellettualismo (usando la definizione di Isaac Asimov: “la falsa idea che la democrazia significhi che la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza”), cioè in definitiva un “ignorante”, sia stato invece percepito mediamente come più affidabile (aggettivo che suona ironico anche se potrebbe rivelarsi drammatico) di qualsiasi altro competitor. A cominciare dalla povera Hillary Clinton, della quale passerà sicuramente alla storia il desolato consuntivo: “Nella settimana trascorsa mi è successo di desiderare soltanto di rannicchiarmi con un buon libro e i nostri cani e non lasciare mai più la casa”. Riassumendo e citando: “Dopo una settimana nei salotti raffinati dell'Upper West Side a mangiare mozzarelle di Eataly, o in compagnia degli hipster di San Francisco a fare il lievito madre come lo faceva la nonna, Trump appare come uno scherzo della natura. Ma bastano poche ore sulle rive di Lake Powell, nello Utah, con i camper sudici e padri di famiglia che sparano patate con un bazooka ricavato da una grondaia, mentre i figli li riprendono e poi cariano i video su YouTube, per afferrare che Trump non è estraneo alla cultura popolare”. Quindi nulla di strano se a vincere è stato proprio chi ha osato “dire ciò che i suoi elettori si azzardavano soltanto a pensare”.

Se però la tesi secondo la quale il “beota” Trump sia stato eletto dai “beoti americani” in spregio agli “snob ateniesi” non vi soddisfa, ecco che l'analisi si fa senz'altro più raffinata recuperando la profezia enunciata dall'editorialista Samuel Francis già vent'anni fa: “From Household to Nation”. “Con le élite che tentano di trascinare il paese nei conflitti e negli impegni globali, guidano la pastorale economica degli Stati Uniti, lavorano alla deligittimazione della nostra stessa cultura e all'esproprio dei beni della nostra gente, disprezzano i nostri interessi nazionali e la nostra sovranità, una reazione nazionalista è quasi inevitabile, e assumerà probabilmente una forma populista quando arriverà. E prima arriva, meglio è”. Non sappiamo ancora se sia meglio, ma sul fatto che sia finalmente arrivata pare non ci siano più dubbi.

Vale la pena insistere sul tema del nazionalismo e del recupero di un'identità basica, anti-intellettuale e anti-cosmopolita, perché il caso Trump è meno isolato di quel che potrebbe sembrare, segnando per così dire un significativo cambio di direzione del pendolo storico dalla posizione progressista intonata al “change” (motto di Obama) a quella reazionaria, come si diceva un tempo, dell'“again” (motto di Trump): “Che cosa promette Donald Trump agli americani? Soldi, potere, fama, vittorie, orgoglio, bistecche e champagne, stucchi d'oro, furore imprenditoriale, beato isolamento, pace perpetua, arretramento dello Stato federale, benessere diffuso, negoziati da favola, sprazzi di vita gioiosa e identitaria, tutti finalmente a ricoltivare, nel fine settimana, il sogno americano del backyard mentre le costine si affumicano a fuoco lento”. Mutatis mutandi, si potrebbero già trovare altrove (anche qua vicino, vicinissimo a noi) notevoli analogie.

Mattia Ferraresi, La febbre di Trump. Un fenomeno americano, Marsilio, pp. 159, € 12.00