Contro la deriva psichiatrica
Stasera (18 dicembre), alle ore 20.30, presso la Biblioteca Culture del Mondo di Bolzano (situata al numero 50 di via Macello) la ricercatrice Catterina Verona presenterà il suo libro “Che cosa non è la malattia mentale. Le derive del sistema psichiatrico istituzionale italiano”.
A metà tra l'autobiografia e il saggio (gran parte del testo è costituito dalla tesi di laurea in filosofia che Verona ha conseguito nel 2016 presso l'Università di Trento), Che cosa non è la malattia mentale ha la forma del pamphlet scagliato contro un sistema medico (quello della psichiatria istituzionalizzata) definito senza mezzi termini “totalitario”, perché legherebbe (e non solo in senso metaforico) un cittadino in precedenza sottoposto al trattamento sanitario obbligatorio (TSO) ad un iter di cura, da svolgere presso i Centri di Salute Mentale (CSM), che alla fine si rivela completamente fuori controllo.
“Gli psichiatri che obbligano l'assunzione di terapie fuori dal TSO, oltre a violentare i cittadini, violentano anche la Costituzione”, si legge nel secondo capitolo del libro, intitolato “Il male e i germi del totalitarismo” e dedicato alla messa a fuoco del fenomeno dei cosiddetti “TSO bianchi”: “È il problema più grande: cosa accade quando una persona esce dal trattamento obbligatorio? In genere viene costretta a proseguire le terapie farmacologiche presso i CSM, pena la minaccia di finire nuovamente ricoverata con un TSO. Un cerchio infernale, dal quale poi non si sa come uscire”.
Nata a Jeumont, al confine con il Belgio, la storia di Catterina Verona ha un retroterra d'emigrazione (i suoi genitori, entrambi italiani, emigrarono in Francia negli anni Cinquanta) ed espone un doloroso vissuto concernente il figlio della donna, Luca, al quale è rivolta la dedica principale del volume: “Dedico questo mio libro a mio figlio Luca Zenatti, torturato dal sistema psichiatrico italiano, con tutta la mia ammirazione e la mia stima per il suo coraggio e la sua resistenza, confidando nella sua resilienza”. È proprio l'esperienza personale ad aver stimolato Verona ad analizzare e studiare i meccanismi istituzionali di cura, aggredendone il principio fondativo con gli strumenti della filosofia. Ritorna in questo senso la lezione di Franco Basaglia, al quale Verona rivolge un pensiero pieno di rammarico: “Lo sento nominare più spesso a Parigi di qui, in Italia, dove egli ha lavorato (…). Io penso che, in Italia, Basaglia sia stato tradito, l'abbiamo tradito (…). Credo che Franco Basaglia, quando si è accorto della condizione disumana che regnava nei manicomi, abbia avuto, in un primo momento, il sano istinto di portarvi umanità, accorgendosi quasi subito che questa sua riforma avrebbe contribuito al mantenimento dell'istituzione manicomiale e che era proprio il manicomio con la sua mentalità manicomiale che andava superato. Questa sua storia si ripete con il nostro sforzo, ovviamente legittimo, di difendere gli psichiatrizzati dall'assunzione coercitiva, vita natural durante, di psicofarmaci”. La chiusura dei manicomi, in sostanza, non sarebbe riuscita a chiudere il “manicomio chimico” (Piero Cipriano) che ha preso a proliferare oltre le vecchie strutture dismesse.
Come si spezza il cerchio, quali sono le proposte concrete per de-istituzionalizzare realmente il trattamento dei disturbi mentali? Secondo Verona è necessario introdurre istanze di protezione previste dal “Progetto” approntato nel 2015 dal Comitato di bioetica del Consiglio d'Europa (DH-BIO). Il “Progetto” prevede l'utilizzo di tre figure di tutela – la persona di fiducia, un'assistenza legale e un organo di revisione della diagnosi – in grado di sottrarre i pazienti alle pratiche coercitive in atto, riconsegnando loro il pieno diritto all'autodeterminazione. A questo scopo, Verona è anche il referente di un'associazione (si chiama Astraresi, fondata nel 2012) per consigliare e assistere i cittadini che si sentono “oppressi” dal trattamento psichiatrico.