Munari in movimento
Pulsa di energia e allegria l’attuale mostra al secondo piano del Centro Trevi benché in un contesto totalmente oscurato perché di opere d’arte luminose si tratta. Munari in movimento rimane aperto fino al 28 febbraio per poi tornare in un secondo momento con altre opere in proiezione, quelle a luce policroma degli anni cinquanta, dal 3 al 24 luglio. Curata da Miroslava Hajek e Manuel Canelles è organizzata dal Teatro Pratiko in partenariato con Gruppo Immagine, Meta Mediazione Teatro Arte e spazio5 artecontemporanea con un bel contributo della Ripartizione cultura italiana della Provincia di Bolzano. Interessante questa combinazione essendo stato Bruno Munari un artista a tutto tondo, o meglio uno che sapeva sperimentare davvero per cui non era legato a nessun campo di azione o modo di espressione ma si divertiva molto a dire la sua a più livelli. Un aspetto che non gli aveva giovato sul versante critico artistico (ne riparleremo) ma gli è valso un sacco di premi e riconoscimenti soprattutto per il suo impegno nel mondo dell’infanzia. Giocose sono infatti i suoi Flexy che accolgono con la loro essenza filiforme rossa chi entra nella sala, quattro composizioni giganti molto semplici che Munari stesso aveva presentato negli anni sessanta (quando erano nate) come “opere interagibili”. Sono strutture flessibili, ognuna composta da grossi fili di plastica rossa di un diametro di circa 1,5/2 cm, infilati nelle giunture originali in modo da creare strutture dinamiche, manipolabili, fruibili da ogni lato, senza avere un ordine preciso di alto o basso. Sul lato destro della sala ci sono tre piccoli spazi separati da sottili pareti bianche, ognuno dei quali ha al centro un esemplare di Concavo-Convesso, una serie di opere create nel 1946/47, in cui Munari aveva già anticipato il concetto di installazione. Forme create con una rete metallica industriale appese a un filo e pendenti dal soffitto vengono illuminate con faretti in modo da creare ombre sulle pareti dove tali ombre si muovono e cambiano forma in continuazione. Munari riprende qui, a nostro avviso, il concetto base delle opere fotografiche plastiche di Moholy-Nagy, il quale sulla scia della filosofia artistico-architettonica del Bauhaus aveva creato queste foto-grafie volanti con costrutti vari illuminati che proiettavano ombre sul loro sfondo, lavorando appunto per primo verso un cinema sperimentale senza pellicola e senza schermo.
Queste nuvole di ferro inventate da Munari e presentate a Bolzano sono state sottoposte a una illuminazione davvero d’artista, nel senso che un artista è colui che ha curato le luci: Giorgio Seppi. Basti ricordare che Pier Luigi Siena, fondatore e primo direttore del Museion ha voluto acquistare due sue sculture per la Collezione permanente del museo bolzanino. E che non ha fatto soltanto da elettricista ma anche da manovale e operaio nel corso dell’intero allestimento della mostra, ce lo ha raccontato la curatrice Miroslava Hajek, incontrata durante l’inaugurazione, tutta vestita di nero, capelli grigi lisci a caschetto e occhiali con le lenti scure a montatura fine in argento. L’abbiamo intervistata per Salto.bz.
salto.bz: Da dove è partita per costruire questa mostra?
Miroslava Hajek: Mi fu chiesta dall’amico Manuel che sapeva che avevo lavorato con Munari per trent’anni, da quando l’avevo conosciuto nel 1969 fino alla sua morte. Ero venuta a Pejo - alle “11 Giornate di Arte Collettiva” nell’autunno di quell’anno - per incontrarlo di persona, dopo aver già avuto una lunga corrispondenza con lui, vivendo io nella ex Cecoslovacchia. All’epoca non potei ritornare nel mio paese essendo stata processata e condannata per motivi politici (siamo subito dopo la famosa primavera di Praga, nel 1968, quando l’armata sovietica aveva invaso con i carri armati il paese dopo una breve autonomia del governo locale dall’allora leader Brežnev, nda). Così Munari mi propose di studiare il suo lavoro. Fare una selezione ragionata delle opere, vedere quali mostravano connessioni tra di loro per individuare il suo percorso creativo artistico. Un lavoro molto interessante per una storica d’arte, soprattutto per me che da sempre lo consideravo geniale benché nel resto del mondo non era così, anzi! Era nata in quel contesto la sua solitudine perché verso la fine degli anni sessanta e negli anni settanta lui era molto isolato. C’era molta gelosia nei suoi confronti, anche se lui aveva sempre dato molto ai giovani artisti. È sempre stato generoso con tutti. Come descrivere trent’anni di lavoro? Era anche molto divertente perché lui faceva un gran casino con le date! Quando andavo da lui, Munari mi presentava una montagna di disegni da cui dovevo scegliere… E io mi ci buttavo come una gatta golosa! Ho dei bei ricordi di questa grande amicizia e da quando non c’è più (Munari è morto nel 1997 dopo aver ancora creato un ultimo orologio per la Swatch chiamato Tempo libero, dove le dodici cifre si muovono liberamente sul quadrante, nda) mantengo la parola data a lui di difendere il suo lavoro. Ciò significa presentarlo come si deve, perché purtroppo ciò non sempre avviene. Ho cercato qui di costruire un percorso di logica della sua creatività: dalle proiezioni di ombre alla creazione delle luci polarizzate.
Cominciamo dalle ombre…
La prima delle opere Concavo-Convesso l’aveva creata nel 1946 e fu esposta come “Ambiente” in un cubo bianco a Parigi, dove però nella restituzione dell’opera avevano sganciato la rete per arrotolarla e quindi non poteva più essere riutilizzato lo stesso retino. La rifece nel 1947, e successivamente una breve serie che si era fermata nei primi anni cinquanta. Non ne fece altre perché non era facile farle. I due rettangolari esposti sono davvero eccezionali, dove quella in fondo alla sala era andata a finire in foto sulla copertina di “Domus” nel 1958. (Munari era collaboratore regolare della rivista di arte e design negli anni quaranta e cinquanta, soprattutto con opere relative all’Arte concreta, movimento artistico fondato da Theo van Doesburg a inizio Novecento, per cui la pittura era soprattutto colore, nda).
Le strutture mobili rosse posate al centro della sala invece cosa sono?
Sono i Flexy. Ne aveva fatto il primo come giocattolo per Danese (Bruno Danese aveva fondato nel 1957 la sua azienda Danese Milano assieme a Jacqueline Vodoz con l’intento di coniugare design e arte in un progetto industriale che era al contempo commerciale e culturale, per Danese Munari aveva realizzato oggetti di arredamento, come tavoli, librerie, lampade, poltrone, posacenere o mobili componibili, nda). Successivamente quella struttura fu sviluppata come scultura interattiva. Tutto questo è qui, al Trevi, accompagnato da due “proiezioni dirette”, come se fosse un unico filmino ritmato, di Aritmie, realizzate dallo stesso Munari nel 1986, anno in cui egli aveva fatto una mostra al Palazzo Reale di Milano. Lì aveva messo queste Aritmie nelle bacheche perché troppe volte accadeva che le persone si scaraventassero sopra e alla fine le rovinarono. Per cui bisognava preservarle.
Quando sono stati esposti per la prima volta questi Flexy?
Stabilitami a Novara presso amici, dal momento che non potevo tornare a casa a Brno, avevo subito creato un mio spazio culturale dove abbiamo fatto una prima mostra dedicata a Munari, nel 1970, e ricordo che c’erano già alcuni Flexy. (sorride beata, nda) Lui voleva produrli senza fine, ma poi ne vennero rubati alcuni e ne perse l’interesse. In realtà il concetto è semplice, lui studiava le diverse giunture, le quali infatti ho portato qui, dove poi venivano e vengono infilati i grossi fili in plastica, resistenti ma morbidi, affinché le strutture risultino “flexy”, per l’appunto.
So che è in partenza per Praga. Un’altra mostra?
Non di Munari, ma di un altro artista italiano, Marco Bagnoli, anche lui giovane: ha più di settant’anni (ride di gusto), molto famoso e reduce di diverse partecipazioni alla Biennale di Venezia.
Dopo la caduta del muro è potuta finalmente fare l’ambasciatrice di culture?
Sì, ho fatto molto per lo scambio di arte visiva per la Repubblica Ceca, lavorando anche con la Francia, la Germania e l’Irlanda. Non è facile comunque, molti sono arroccati sulle loro posizioni e/o collezioni, per cui a volte si inizia senza poi riuscire a finire un progetto. Un vero peccato, in quanto soprattutto le arti visive sono fatte per comunicare.
Com’è avvenuto il contatto con il Centro Trevi?
Sono amica da anni dei genitori di Manuel Canelles, avevo prestato loro le opere di Munari quando avevano fondato il Mini Mu a Trieste. Manuel lo apprezzo come artista, anzitutto, per cui quando mi chiamò per la mostra ho subito accettato. Non le presto volentieri e - per altro - qui le ho date in modo gratuito. Una specie di volontariato artistico!
Nota finale
Sarebbe bello se questo volontariato avesse un seguito, a Praga, con artisti di Bolzano come Giorgio Seppi, e con artisti cechi a Bolzano, ci diciamo più tardi, quando Miroslava ormai si rilassa con un bicchiere di vino bianco al piccolo buffet. Subito chiama Manuel a sé, per fargli la proposta, il quale ne appare molto più convinto al momento che si avvicina anche Claudio Andolfo, direttore della Ripartizione cultura italiana della Provincia, il quale accoglie con visibile gioia il bel piatto servito e propone come galleria per questo futuro evento di scambio tra artisti italiani e cechi lo spazio5. Speriamo davvero che si possano avviare ulteriori scambi culturali, transnazionali, visto che pare che anche Nazario Zambaldi, direttore artistico del Teatro Pratiko, abbia apprezzato l’idea. Pertanto rimaniamo in attesa della seconda fase della mostra: dapprima, il 15 aprile il Talk presso il Museion, e poi nella prima metà di luglio, le inedite Proiezioni a luce fissa e le Proiezioni a luce polarizzata, tutte conservate nelle loro forme originali dalla stessa Hajek che le ha digitalizzate per una resa ottica di sicura unica.