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FUORI! Con parole e musica…

La rassegna estiva del Teatro Stabile Bolzano entra nel vivo facendo incontrare parole e musica: da Rocco Papaleo a Paolo Fresu in dialogo con Silvio Orlando.
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Foto: Luca Guadagnini

Erano esauriti da tempo i biglietti per la serata con il duo Paolo Fresu e Silvio Orlando pensata e creata esplicitamente per la rassegna gratuita FUORI!, ideata dallo Stabile per portare “il teatro fuori dal teatro”, che dal 2015 si avvicina al pubblico nei singoli quartieri del capoluogo dell’Alto Adige: “Quando il direttore del Teatro Stabile di Bolzano Walter Zambaldi mi ha proposto di musicare La vita davanti a sé di Romain Gary, letto da Silvio Orlando, ho accettato immediatamente. Non solo perché grazie allo spettacolo “Tempo di Chet” si è creato uno stretto legame artistico con lo Stabile di Bolzano, non solo perché stimo enormemente Silvio Orlando, ma perché il romanzo dello scrittore franco-lituano è stato compagno di letture in questi ultimi due anni. Se è vero che le coincidenze esistono, questo invito ne è la prova. Come dire di no?”, racconta Paolo Fresu, che con la sua magica tromba ha musicato la messinscena tutta verbale dell’attore noto al pubblico dai numerosi film interpretati a partire dal lontano 1976, sempre di un certo impegno politico-sociale, come “Il caimano” di Nanni Moretti, “Preferisco il rumore del mare” di Mimmo Calopresti o “Il papà di Giovanna” di Pupi Avati, ruolo che gli era valso la Coppa Volpi come miglior attore alla Biennale veneziana dove era stato presentato in concorso nel 2008. 

 

Il progetto “La vita davanti a sé in jazz” vede Orlando condurre il pubblico dentro le pagine de “La vita davanti a sé” di Romain Gary, uscito nel 1975 e adattato per il cinema nel 1977. È la storia di Momò (diminutivo di Mohamed), un bimbo arabo di dieci anni che vive nel quartiere multietnico di Belleville a Parigi, e ne ha vissute di tutti i colori, essendo cresciuto accudito da una donna ormai anziana che nella vita ha sempre fatto la prostituta e vivendo da sola si era presa l’impegno di prendere con sé i “figli di puttana”, ossia i bimbi nati dalle unioni semi-clandestine tra le prostitute e i loro clienti. Anche Momò lo è, ma a differenza degli altri la sua mamma non la conoscerà mai e quindi va alla ricerca inventandosi ogni capriccio che una vera mamma punirebbe, e lo fa per mettere alla prova le donne che incontra… Sempre attuale nel linguaggio aderente alla vita che a volte si presenta sgangherata e un po’ alla rovescia, senza mai dimenticare, però, improbabili storie d’amore, il testo è recitato a memoria da Orlando, un monologo molto sentito, dove grazie alla sua bravura e flessibilità interpreta i diversi personaggi che vi compaiono, aprendo per noi che lo ascoltiamo – da grande narratore che è - il mondo in cui vive Momò in tutti i suoi colori, le sue emozioni, le sue visioni, prontamente ampliate in parallelo da Paolo Fresu con la sua mitica tromba che ha fatto risuonare sotto il cielo di una notte stellata. 


Non poteva mancare un lunghissimo applauso finale, molto sentito, come eco a ciò che i due ci hanno regalato e che solo dal vivo è possibile sperimentare. A fronte di questo caloroso abbraccio del pubblico il duo regala un bis, ma non – come pensiamo per un attimo – il ripetersi di un breve brano del testo, no, Silvio Orlando prende in mano il suo flauto di traverso e suona in coppia con la tromba di Paolo Fresu. Ci ha stupito un’altra volta, questo attore che sa portare in scena tutto se stesso, con le diverse sfaccettature della sua persona, dall’amorosa dolcezza fino alle amare delusioni, dal potente amore fino alla morte per esaurimento delle energie vitali della “madame La”, e dopo aver narrato un testo in cui non mancavano nemmeno i rimandi al nazismo, il quale torna sotto altre forme nella (nostra) quotidianità, poggia il flauto sulle labbra e parte con una melodia, come se niente fosse. E chi lo sapeva che suonasse quello strumento? Leggendo la sua biografia scopriamo che il vero esordio sulle scene era stato come musicista, suonando appunto il flauto di traverso in una band del Centro culturale giovanile di Napoli, città in cui era nato nel 1957.

 

Nello primo fine settimana di giugno nell’Arena montata dallo Stabile sui Prati del Talvera era in scena Rocco Papaleo con la sua band per presentare “Coast to coast”, titolo che mi fa pensare a quello del suo primo film “Basilicata coast to coast”, girato nel 2010 sulla base di un testo teatrale omonimo scritto dallo stesso Papaleo con Valter Lupo (e che ha vinto diversi premi come miglior esordio nella regia nel 2011), ma lui – interrogato a proposito – ha affermato con fermezza che “no!, è un semplice riferimento a un andare e venire…”. A un traghettare da un punto all’altro? – viene da aggiungere, senza meta, senza direzione alcuna, come quando si viaggia, appunto, da una costa all’altra, quando si sa da dove si parte e dove si vuole arrivare, ma la strada rimane incerta, imprevista, tutta da scoprire, da tentare, a volte al buio, a volte immaginando il percorso, a volte tornando sui propri passi per riuscire a farne un altro, più grande, forse, verso il futuro. 


Proprio come lo scorrere della seconda serata, cui ho assistito, iniziata con l’attore/regista/sceneggiatore che si aggirava tra il pubblico scambiando qualche battuta e facendosi fotografare con alcune e alcuni dei suoi fan, per poi cominciare proprio da lì, non senza sottolineare che in realtà non voleva disturbare il pubblico nei suoi discorsi, forse lasciati a metà per ascoltare il suo monologo, recitato – anzi narrato – e cantato. “Come si fa a perdere tempo?”, si è chiesto Rocco Papaleo a un certo punto, perché – suggerisce - “innanzitutto bisogna trovarlo, il tempo, per poi poterlo perdere…”. 


Una dolce serata estiva, una delle prime, che ha fatto esordire Papaleo dicendo che era “contento di aver ritrovato la fisicità”, nel fare teatro, dopo un anno, o quasi, per poi puntualizzare che avendolo già detto la sera prima, in cui era persino un po’ emozionato nel tornare sul palco, dal vivo, il giorno dopo era già rientrato tutto nella solita routine – e lo dice come incipit allo spettacolo-recital-concerto con quel tipico “non so che” del suo potente sense of humour dal tocco britannico in certe freddure, anche più gelate, le quali però, dette da lui, suonano come “brividi caldi” togliendo ogni riferimento a un romanticismo idealizzato per farci tornare nel qui e ora, nella dura e cruda realtà, stimolando una riflessione. “Fare cinema va bene, ci fa lavorare” ha continuato l’attore, nato nel 1958 a Lauria, un piccolo paese in Basilicata “ma non c’è paragone con l’incontro diretto col pubblico!” E ci regala una serata memorabile con le sue parole in musica, le canzoni in cui parla di amore, di sesso, di solitudine e di moltitudini, di futuro e di memoria, parole a volte ricche di sfumature e di doppi sensi, non volgari, ma che rimandano a ciò che negli anni settanta era considerato il personale e politico. Di certo lui di “politicamente corretto” non ha nulla. Non sa nemmeno come definire questo suo “Coast to coast” e mentre i componenti del gruppo musicale che lo accompagna in questa avventura (Arturo Valiante, pianoforte e altri tasti, Guerino Rondolone, bassi e contrabbasso, Davide Savarese, tamburi e suoni, Giorgio Tebaldi, trombone e ukulele) gli suggeriscono alcune definizioni (“recital?” – no!, “show?” – no!, “spettacolo?” – no?), le rifiuta tutte, con fermezza, perché come si fa a etichettare l’imprevisto flusso di emozioni simile alla vita? Tanto meno si lascia inquadrare in una categoria, come appunto non si può fare con la vita, le emozioni, le persone. Ognuna è diversa e sta qui la quasi inquietante bellezza. Guardando i musicisti da destra a sinistra, mentre sono lì, in piedi, sull’avanscena, tutti e cinque raggruppati di fronte al pubblico, per dare inizio con chitarra e un po’ di percussioni al primo canto-poesia, in cui si parla di solitudine paragonandola, infine, a un cactus nel deserto, il quale però – ci sono dubbi? – sta molto bene anche da solo! 


Scorre come un fiume l’intera serata, brano dopo brano, in cui a un certo punto Papaleo si prende gioco persino della tanto agognata bellezza, riferendosi all’insignificanza dello stesso concetto di bello (e brutto), in quanto in teatro, come al cinema, così come nella vita, non è più importante – forse - che una persona (o un personaggio) ci piaccia? Per non dimenticare, infine, bravura e fascino di un attore che nell’interpretare un personaggio bello o brutto che sia, fa parlare l’anima e le emozioni per renderlo bello o brutto. 
Rocco Papaleo è noto al pubblico, per i numerosi film interpretati (a partire dal 1989 con Mario Monicelli in “Il male oscuro”, a seguire ha lavorato con Francesca Archibugi e Michele Placido, ma anche con Checco Zalone e Luciana Littizzetto) e per le tante serie e film televisivi, e ci tiene a garantire che il suo non è un “nome d’arte”, ma è realmente il suo nome. E per rimanere nel lontano passato, nel suo paesino del sud, ci fa sapere che la prima esperienza sessuale con una donna, la giovane hippie Scilla, gliel’hanno “regalata” i suoi amici in occasione di un periodo passato in campeggio, negli anni della sua gioventù, quando “l’amore era ancora libero” e si faceva con leggerezza. Ed è con quella stessa leggerezza dell’essere, già cantata dallo scrittore Milan Kundera in uno dei suoi romanzi più famosi, che Rocco Papaleo ci canta esperienze di vita, reali o immaginarie, poco importa, e lo fa con grande tenerezza, puntando dritto verso il pubblico quel suo sguardo dolce e profondo, senza mai far mancare – come abbiamo già accennato – la giusta dose di humour per farci sorridere anche nelle storie più tragicamente drammatiche.
Non è da meno – e va detto – il breve poetico gesto del suo pianista che, dopo aver suonato un assolo in perfetto stile Keith Jarrett (con raffinatezza, per chi conosce il grande pianista, considerato tra i più grandi improvvisatori jazz, che ha scritto la storia della musica col suo mitico “The Kōln Concert” del 1975) si fa avanti per farci sentire la sua, di poesia. Estrae un foglietto e lo apre – come fanno a volte gli artisti stranieri per leggere una frase segnata in italiano – e annuncia al suo “boss” che vorrebbe leggere questa poesia chiedendogli inoltre di accompagnarlo musicalmente durante la lettura. Titubante, Papaleo si siede davanti al pianoforte a coda digitando con esitazione un “do” ripetuto, per poi lasciarsi andare in una fluida melodia jazz che fa da sottofondo alle intriganti dichiarazioni pensate dal suo pianista attorno al tema del “grande amore”, quello che fa male, per intenderci, quello che dalla grande gioia ti butta nel più profondo dolore.


La serata procede nel suo dolce divenire traghettandoci nell’ignoto regno in cui si vive e si muore, si immagina e si sogna, dove i sogni si possono avverare e la vita può essere sognata. Un poetico “ricordare” nel senso più letterale del termine, di estendere cioè una corda invisibile da un punto all’altro, una corda della memoria, in avanti e indietro, in un ritmico (a volte) nonsense che non è mai privo di un senso profondamente umano. Come quando l’attore-cantautore riesce a parole a farci sentire persino il profumo delle frittate cucinate dalla mamma o a farci intravedere la silhouette del padre, mentre narra la frase leggendaria detta al figlio ormai grande, da segnarsela e leggersela, di tanto in tanto, al contempo rebus e profetica: “ci sono treni che non si possono perdere…” Quali siano non ci svela, Papaleo, essendo a suo dire egli stesso rimasto all’oscuro di ciò che il padre gli voleva comunicare. Noi coniughiamo la frase a modo nostro perché ci sono anche spettacoli che non si possono perdere, come la serata del 12 giugno con Rocco Papaleo e la sua band. Lo aspettiamo con grande piacere nel prossimo autunno, sempre allo Stabile di Bolzano, quando tornerà per fare l’attore in “Peachum”, la pièce diretta da Fausto Paravidino e ispirata alle vicende di Mackie Messer nell’ “Opera da tre soldi” di Bertolt Brecht.