Society | maso chiuso

Quelle contadine sfortunate

Una sentenza della Consulta dichiara incostituzionale la vecchia legge provinciale sul "maso chiuso" che per 23 anni ha discriminato le donne dai diritti di successione.
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Foto: Alpenmag

È l'agosto del 2001 e il proprietario del maso «Sarganthof» a Neustift/Novacella presso Varna, Anton L., muore a Salorno. Il contadino Anton ha due figli naturali: la primogenita Angelika R., classe 1979, e l'allora minorenne Maximilian L. nato nel 1995. Di lì a qualche mese, nel novembre 2001, la Provincia Autonoma di Bolzano avrebbe messo mano alla legge sul "maso chiuso" del 1978. Una riforma storica, quella varata dal Landtag, che finalmente rimediava a un'inaccettabile diversità di trattamento tra uomini e donne: la proprietà indivisibile del maso, infatti, secondo la normativa sino ad allora vigente poteva andare in eredità (nella sua interezza) solo al primogenito maschio. Le sorelle maggiori erano discriminate, anche qualora avessero trascorso la propria vita nel maso e vi avessero lavorato, una delle condizioni utili affinché si possa accedere automaticamente a questo antico diritto di successione, la cui codificazione risale ai tempi dell'imperatrice d'Austria Maria Teresa. Ma a Novacella, a pochi passi dalla meravigliosa Abbazia benedettina, al compimento della maggiore età del (presunto legittimo) erede maschio si è aperta un'accesa disputa con la sorellastra: applicare la legge vigente alla morte del padre (come chiede Maximilian L., diplomato alla scuola agraria di Ora, che rivendica la volontà paterna di lasciare a lui il maso) oppure adeguarsi alla legge riformata pochi mesi dopo dalla Provincia, stabilendo la parità uomo-donna e consentendo alle primogenite di godere dello stesso diritto di maggiorasco (come chiede Angelika R., nel frattempo laureatasi in legge a Innsbruck, ma avendo maturato in gioventù l'esperienza necessaria a gestire un'azienda agricola)? I due fratelli finiscono davanti ai giudici, ma il Tribunale di Bolzano decide di rimettersi al giudizio della Corte costituzionale, riconoscendo le ragioni più che fondate della ricorrente, e constatando una palese violazione dell'articolo 3 della Costituzione in un passaggio della legge del 1978 (“Tra i chiamati alla successione nello stesso grado ai maschi spetta la preferenza nei confronti delle femmine”). La scorsa settimana, i giudici della Consulta hanno emesso la sentenza: l’art. 5 della legge provinciale n. 33 del 1978 è dichiarato costituzionalmente illegittimo proprio nella parte in cui prevedeva che la preferenza dei maschi.

Lo ius soli maschile

La Corte diede il “via libera” al maso chiuso con la sentenza n. 4 del 1956: il legislatore costituzionale ritenne di introdurre nell’ordinamento nazionale questo istituto “perché fortemente espressivo della tradizione sudtirolese”. Secondo i giudici dell'epoca, “le esigenze della migliore produzione e gli scopi di natura familiare – di cui il legislatore costituzionale, con il maso chiuso, ha permesso il riconoscimento e la tutela per soddisfare le istanze della popolazione altoatesina – giustificavano la preferenza per il primogenito maschio prevista dall’allora legge provinciale vigente”. Ciò presumendo che l’assuntore maschio potesse conoscere l’azienda familiare “meglio di altri”, avesse “il più efficace sistema di conduzione” e “un maggiore attaccamento al fondo avito” (sentenza n. 40 del 1957). Proprio tali conclusioni in tema di preferenza maschile, la Corte costituzionale ha ritenuto dovessero essere superate. Regole “non a caso abrogate dalla legge provinciale n. 17 del 2001, fanno capo ad un contesto inattuale nel quale, all’esigenza obiettiva di mantenere indiviso il fondo, si associava una ormai superata concezione patriarcale della famiglia come entità bisognosa della formale investitura di un capo del gruppo parentale. La desuetudine della visione patriarcale della famiglia e del principio del maggiorascato, l’evoluzione normativa in materia di parità tra uomo e donna hanno dunque profondamente mutato sia il contesto sociale che quello giuridico di riferimento”.

Le donne scavalcate nell’asse ereditario a favore di fratelli maschi prima della riforma della legge provinciale restano per così dire "fregate" e non possono riaprire la questione

La sentenza della Corte costituzionale sulla disparità di trattamento delle donne nella "vecchia" legge provinciale del 1978 (ma già rivista nel 2001 proprio su questo punto), aldilà della disputa familiare tra fratelli sull'eredità del maso di Novacella, avrà ulteriori conseguenze retroattive? No, secondo il professore di diritto costituzionale e senatore Francesco Palermo, “a meno che non pendano ulteriori casi analoghi incardinate prima della riforma del 2001, ma non mi risulta, e in ogni caso si andrebbe per analogia quindi anche se così fosse non ci sarebbero novità rispetto all’esito”. E il fatto che per 23 anni fosse in vigore una legge ora dichiarata in parte incostituzionale (nonostante la riforma del diritto di famiglia fosse già avvenuta negli anni settanta) ha qualche rilievo? "La questione della vigenza di una legge incostituzionale per un certo numero di anni è fondamentale – spiega Palermo – ma proprio per questo la Corte l’ha risolta fin dalla sua prima sentenza in assoluto, la n. 1/1956 (in pare è già considerata dalla legge sul funzionamento della Corte, 87/1953): salva diversa disposizione, gli effetti si mantengono, per cui i rapporti giuridici risolti in base ad una legge ancora non dichiarata costituzionalmente illegittima restano validi. In pratica, le donne scavalcate nell’asse ereditario a favore di fratelli maschi prima della riforma della legge provinciale restano per così dire "fregate" e non possono riaprire la questione”.