Society | racconto

La solitudine dell'operatore sociale

La fatica, la rabbia e il senso di impotenza che affligge chi ha deciso di dedicare un pezzo della propria vita alle sofferenze degli altri.
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Un giorno mi metterò a scrivere di quanto si senta solo l’operatore sociale. Ma lo farò più avanti, lo farò quando finalmente saranno finite le guerre, tutte le guerre.
Lo farò il giorno in cui ci sarà democrazia.
Lo farò il giorno in cui si potrà parlare tranquillamente, anche delle cose che non vanno e che non funzionano perché nessuno sarà su un piedistallo pronto a giudicare.

Quindi m’interessa il giudizio?

Ecco, quel giorno vi racconterò della nebulosa nella quale ci troviamo, vi racconterò di quanto alcuni giorni sia difficile trovare l’orientamento e alcuni altri giorni pare proprio impossibile orientarsi.

Solo quel giorno però vi racconterò perché la chiamo solitudine, questa sensazione eterna di sentirmi nécarnenépescenéverdura.
Allora, egoisticamente, vi racconterò di che cosa voglia dire, alcuni giorni, inrealtàquasituttiigiorni, avere la sensazione di sbagliare.

Perché, ecco, si tratta di questo: avere la sensazione di essere un parente di quel famoso elefante nel negozio di cristalli, ma il parente grasso e goffo, che come ti muovi sbatti, rompi, fai danni.

Come fai sbagli, e mai mi è stata di consolazione la frase “solo chi fa sbaglia”, perché, caspiterina, non faccio più la barista e non si tratta di mescere uno Spritz troppo forte (troppo leggero no, non è possibile).

Quel giorno vi racconterò di come sia dura (quasi tutti i minuti di quasi tutte le ore di tutti i giorni) lottare.

Lottare contro i capi che pensano che tu faccia troppo oppure troppo poco e comunque il più delle volte, male, ovviamente.
Lottare contro la gente là fuori, quelli che nel sociale non ci lavorano, ma che del sociale s’interessano, e magari parlano, la gente che si trova fuori dalla campana dentro la quale gli operatori fumano nervosi, che pensano che tu sia un venduto perché sei servo del sistema.
Lottare con un’altra parte della gente fuori dalla campana che pensa cose obbrobriose come “L'Italia agli italiani” ecceteraecceteraeccetera.
Lottare contro altra gente ancora, quella più ostica perché totalmente indifferente ai pensieri e ai processi che tanto popolano la tua mente e il tuo cuore.
Lottare contro gli utenti perché alcuni credono a tutto quello che dici, e oh, l’ansia incredibile di questo senso di responsabilità uccide, e gli altri, sì gli altri che pensano che ogni tuo “no” sia una decisione personale frutto di cattiveria innata o peggio ancora di servilismo strisciante.
Lottare contro la famiglia che mai potrà capire perché vuoi andare in vacanza dove ci sono degli sbarchi per dare una mano.
Lottare contro l’ovvietà del “ ma hai una vita oltre il tuo lavoro?”

E avete tutti ragione.

Sono una venduta al sistema che crede nei diritti umani e che pensa che da dentro il sistema possa comunque venire un cambiamento, che non ha una vita oltre al lavoro perché questo lavoro, al momento, è vita.

Quel giorno vi racconterò di Hassan e di quella volta che sotto la camicia slacciata notammo una cicatrice grande e grossa che si faceva beffe di lui e dei suoi sorrisi forzati. Vi racconterò di come quel giorno mi sono fatta piccola piccola e ho pianto per e con quel ragazzino afghano che tremava solo perché la cicatrice era stata vista. Vi racconterò che la guerra è qui e non è arrivata con gli attacchi tremendi di Parigi.

E' giunta da noi molto prima.

Io sono lenta. Sono lenta perché mi perdo, cerco di fare mille cose e com’è più che prevedibile, mi perdo. L’ho vista tardi, la guerra, anzi non l’ho vista arrivare, era già qui.

Vi racconterò poi anche di Sharif che è arrivato in Italia minorenne, che era orfano e lavorava in Libia da quando di anni ne aveva solo 12.
Vi racconterò della sua serietà, della sua integrità, del fatto che mai ha chiesto nulla e che ora svolge due lavori e mi parla in italiano quasi perfetto. Vi racconterò che quando questo piccolo grande uomo s’iscrisse a un workshop di fotografia scelse di fotografare i parchi gioco, lui che bambino non è mai stato.

Forse vi annoierò, ma vi racconterò di Naso Grande, il mio fratello afghano che passava le giornate a dormire e le notti a guardare i bombardamenti a casa sua, da un maledetto smartphone, sì. Vi racconterò di come, nonostante tutto, notasse ogni nostro cambiamento d’umore e come con uno sguardo riuscisse a dirti tutte le belle parole che un cuore grande come il suo avrebbe potuto dire se avesse imparato l’italiano.

Vi racconterò ancora degli afghani, di come arrivano con uno zaino piccolo, di quelli tipo vadoinmontagnaunpaiodioreecimettogiustoduemeleunpo'd'acqua. E se ne vanno via con lo stesso zaino, piccolo, minuscolo e pulito, se lo caricano in spalla assieme alla consapevolezza che difficilmente metteranno radici da qualche parte, tanto nessuno li vuole e a casa non potranno più tornare. Se lo mettono in spalla e ti sorridono. E ti dicono “grazie boss” e tu vuoi farti piccola piccola e sparire, sparire da qualche parte dove non si senta il dolore dettato da questo immenso senso di impotenza.

Tu gli chiedi scusa e loro, sorridendo ti dicono “thank you” e niente, nessun luogo è abbastanza grande da contenere la tua delusione e la loro rassegnazione.

Quel giorno vi racconterò di cosa si prova a vedere un medico del pronto soccorso dire “ ma guarda che non ha nulla, fanno finta e si lamentano per niente questi” di fronte ad un ragazzino magro che trema come una foglia col viso rigate dalle prime lacrime che io gli abbia visto in due anni.
Vi racconterò delle mani screpolate di Dawdi e di come non sembravano guarire mai e del sorriso suo triste nel raccontarti fiero che prima della Libia le sue mani erano belle, “but mamma, Libia is hell”.
Vi racconterò di come tutte le loro voci si spezzino come rotte tutte allo stesso punto del racconto, il momento in cui devono pronunciare la parola “Libia”.
Vi racconterò di come ci si senta quando ti dicono che si è “troppo” emotivi quando piangete di fronte a uno di loro.
Vi racconterò come ci si sente quando i politici descrivono la rotta balcanica come “anormale” e “normali” sono solo gli sbarchi. Di come ci si sente nel vedere che li considerano numeri, quanti ne avete, 25,40,60,130? Di come nessuno di loro conosce un nome o una storia, ma tutti loro tengono banco a raccontar di loro.

E seduta tra il pubblico ti sale la rabbia, ti stringe lo stomaco e ti senti sola.
Oppure matta.
Oppure entrambe le cose.

Vi racconterò di Meahill che cadendo dalla bici si ruppe la mano, e che quando gli dissi (ovviamente ignorando il fatto che la mano fosse rotta) di andare in camera perché non era nulla di grave, vi andò fiducioso.

E di come tornò con la mano gonfia, qualche ora più tardi.
E di come, quando finalmente lo avevano operato, tutto contento ci toccava la testa, perché quelli erano i suoi abbracci, leggere carezze sulla testa .

Vi racconterò dello sguardo di quel ragazzino minorenne buttato fuori perché l’esame osseo aveva decretato la sua età in 18 anni precisi.

E tu stai in piedi di fronte a lui e gli dici che non hai una soluzione, ma che stai tentando di trovarne una. E lui, che di anni ne avrà al massimo 16, ti guarda e gli occhi si fanno ancora più grandi e ti chiede con un filo di voce: “So, don't you have a solution?”

E tu pensi al divano libero a casa e ti guardi le scarpe nuove appena comprate e non c’è logica che tenga, tu lo sai che le cose non sono collegate, ma ti senti lo stesso piccola e meschina.

Tu lo sai che la soluzione di un sistema malato non è il divano di casa tua, ma la stretta allo stomaco è là, di nuovo. A farsi beffe di te.

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Massimo Mollica Wed, 08/24/2016 - 09:50

Confesso che dal basso del mio nulla mi è caduta qualche lacrima per queste bellissime parole. Se tutti fossimo come te il mondo sarebbe MERAVIGLIOSO. E sempre dal basso del mio nulla mi permetto di offrirti un abbraccio. Non è nulla perché lo offro io. Che non sono nessuno e, nonostante la stazza, sono molto , ma molto, più piccolo di te.

Wed, 08/24/2016 - 09:50 Permalink