Culture | salto weekend

Non è il solito film sugli alieni

Dentro il sofisticato universo di Arrival c’è una lezione sul linguaggio, una voluminosa componente emotiva e una storia da arrovellarcisi sopra. Con sommo gusto.
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Foto: upi

Se fossimo titolati a dare consigli sulla visione della nuova pellicola del regista québécois Denis Villeneuve, tratta da "Storie della tua vita" dello scrittore americano Ted Chiang, il primo esercizio da fare prima di piazzarsi di fronte allo schermo sarebbe quello di ricacciare negli anfratti più negletti della memoria gli scenari glamour da futuro post-apocalittico, gli alieni pucciosi di "E.T"., quelli spacconi di "Independence day", quelli dalle confortevoli sembianze umane di "Contact" o quelli idrofobi di "Signs". "Arrival" è infatti un film di fantascienza che supera i reticolati del genere sabotandone i cliché pur mantenendo le specifiche dell’intrattenimento mainstream. Roba da triplo carpiato all’indietro, insomma. Ambizioso eppure calibrato il film di Villeneuve, già autore del folgorante "La donna che canta" (Incendies) e dell’atteso sequel di Blade Runner, racconta di Louise Banks (Amy Adams), linguista in un’università del nordest degli Stati Uniti, reclutata - insieme al matematico Ian Donnelly (Jeremy Renner) - dai militari per stabilire una comunicazione con gli alieni che, toh, sono arrivati sul nostro pianeta senza però, a quanto pare, voler dar fastidio a nessuno.

 

Dodici oggetti, la versione 2.0 dei monoliti kubrickiani di "2001: Odissea nello spazio", si posizionano in varie zone del globo, dal Montana, a Shanghai, alla Russia, all’Europa, ma le sconosciute intenzioni degli extraterrestri diventano una costante minaccia che mina i labili rapporti fra i vari paesi, già sul piede di guerra. Geopolitica for dummies. I nostri cercheranno di costruire un alfabeto che permetta di decifrare l’astratto mistero della lingua aliena, l’eptapodese, stabilendo quindi un contatto. Il bello di "Arrival", fra le altre cose, è che nell’involucro geneticamente fantascientifico si snoda una narrazione personale, quella di Louise, percorsa da una scura scia emozionale che è funzionale al successo del film. Villeneuve gira a due spanne dal cuore in un crescendo di tensione senza indossare i panni del crowd-pleaser spielberghiano e realizzando uno sci-fi movie intimo e fluido, immerso in una nebbiosa ed evocativa fotografia, che ha in calce la firma di Bradford Young. "Arrival" è disegnato per porre domande, di quelle che fanno aggrottare la fronte, e quando questo succede è perché di solito un film ha fatto il suo dovere.
 

Una battuta: "Memory is a strange thing".
 
 
Il trailer di Arrival (lingua originale)