Un'inutile strage?

Esattamente un secolo fa, nei freddi giorni di febbraio del 1915, si avviava a conclusione uno degli episodi più dimenticati e sanguinosi della grande guerra. Oltre centomila soldati austroungarici dovevano arrendersi all'assedio dell'esercito russo nella piazzaforte di Przemyśl (Premissel in tedesco). Un macello tra i tanti nella carneficina generale, un altro bagno di sangue da consegnare alle cronache della follia di chi aveva scatenato un conflitto che, nella miope visione di generali e diplomatici, doveva durare qualche settimana appena e che invece si sarebbe prolungato per anni. Morivano di fame quei soldati costretti ad alzare bandiera bianca e ad avviarsi verso una sorte, quella della prigionia, forse peggiore di quella che lasciavano dietro le spalle.
Verrebbe voglia di frugare nei fogli matricolari conservati in chissà quale archivio per elencare i loro nomi, uno per uno, e quelli delle loro donne dei loro figli lasciati a casa, magari costretti alla deportazione e all'esilio come gli abitanti di una vasta parte del Trentino. Un elenco infinito e accanto ad ogni nome di segni del dolore della morte, della povertà e della disperazione.
Eppure, c'è da esserne certi, non basterebbe neppure questo a far cambiare idea a coloro che si ostinano, ancora dopo un secolo, a proclamare al mondo che quella guerra, tutte le guerre del resto, fu giusta, utile e sacrosanta.
E così, dalla prima pagina de il Corriere della Sera, il notissimo stimato politologo Ernesto Galli della Loggia ci spara addosso, per la seconda volta in poche settimane, il suo acre disappunto per il modo con cui l'opinione pubblica sta vivendo le rievocazioni del centenario della grande guerra. Soffre, l'illustre politologo, per il fatto che in molti ormai tendano a concordare con quel giudizio drastico e senza appello che il Papa Benedetto XV ebbe a esprimere, nell'agosto del 1917, sulla guerra che ormai macinava morti e feriti da ben tre anni. La chiamò "un'inutile strage" ed anche allora, in un'Europa nella quale la terra faticava ad assorbire il mare di sangue versato, furono veramente in pochi a non condividere il giudizio.
Ma Galli della Loggia non ci sta.
Ernesto Galli Della Loggia
Nell'ultimo editoriale prende spunto dagli spifferi di guerra che per qualche ora hanno soffiato sull'Italia a causa della crisi libica per processare un'Europa imbelle e pacifista ("panciafichista" avrebbe detto qualcuno) ineluttabilmente consegnata all'avanzante islamizzazione. L'appello ad una nuova crociata è però soltanto un pretesto. Quel che l'autore preme è quel giudizio di "inutile strage". Quel grido di dolore sfuggito ad un Pontefice che osservava atterrito il macello senza fine degli anni, lo ferisce come un'ingiusta accusa. Sulla "strage" nulla da dire. Non si può peraltro contestare un dato di fatto che è testimoniato dalle migliaia di cimiteri di guerra sparsi su tutto il continente e in parecchie altre parti del mondo. Sono milioni di tombe alle quali si aggiungono quelle dei civili vittime dirette o indirette di quel conflitto.
Quel che manda Galli della Loggia fuori dai gangheri è l'aggettivo: inutile. Come facciamo, sostiene, a definire inutile un conflitto che ha permesso di dare l'indipendenza alla Polonia e all'Ungheria, ai paesi baltici, a liberare le nazioni arabe dalla soffocante tutela dell'impero ottomano, restituire all'Italia il possesso di Trento e Trieste solo perché tutto questo è costato milioni di vite umane?
È la storia nel suo implacabile procedere, che esige questi occasionali sacrifici umani per disegnare nuove carte geografiche sulle cui linee di confine costruirono impalcature per nuove guerre, nuovi massacri, nuove alluvioni di miseria, violenza e malattia.
Sfugge forse all'illustre politologo che la Polonia, l'Ungheria e i paesi baltici sono riusciti a conquistare l'indipendenza e benessere non a causa delle guerre dei massacri combattuti nel cosiddetto "secolo breve", ma in anni recenti come frutto di un lungo periodo di pace, quella conquistata dall'imbelle Europa pacifista, che ha sgretolato le cortine di ferro e le mura delle ideologie del nazionalismo.
Quanto a Trento e Trieste, sembra di sentire, nelle orecchie, il crescendo delle voci di donna riportate alla vita nello spettacolo "Voci nella tempesta" (in scena questa sera, 20 febbraio, presso il teatro studio del comunale di Bolzano). Sono le voci di tre donne trentine, travolte come mille altre dalla tempesta della guerra, costretti all'esilio, offese nella loro umanità dalla violenza, dalla miseria, dalla privazione degli affetti più cari. Tre donne che, come ha voluto precisare l'autrice dello spettacolo Elena Marino, in una conferenza di presentazione svoltasi l'altra sera al Centro Trevi, raccontano del loro dolore e della loro rabbia in lingua italiana ma si sentono intimamente legate alla patria austriaca. È una verità storica inoppugnabile, ma che, dopo un secolo, ancora bisogno di essere sottolineata e spiegata.
Sperando che Galli della Loggia non venga a saperlo.