Franca Zadra: Das Fremde und das Heimische
- Signora Zadra, come ha acquisito familiarità con il concetto dello „straniero“?
Franca Zadra: Un po' per la mia vita vagabonda, ma privilegiata. Mio padre girava molto per lavoro, e allora ho sempre dovuto cambiare città, lingua, mondo. Ogni 3 anni cambiavamo residenza, mi sono abituata – le radici erano una cosa relativa –, si stabilivano legami importanti con la famiglia, magari con gli amici, ma non con il territorio. Poi mi sono dedicata agli studi di questi fenomeni, il radicamento, lo sradicamento e la crescente mobilità geografica e sociale dei nostri tempi.
- Cosa faceva suo padre?
Lui lavorava per una ditta italiana, Impregilo, legata al mondo delle grosse costruzioni e le grandi centrali idroelettriche, per esempio in Sudamerica o in Algeria. Lui era un amministratore dei progetti, doveva essere presente nei cantieri.
- E portava sempre la famiglia?
Noi avevamo la nostra „base“ a Lima, però mi ci sono sentita sempre un po' estranea: andavo e venivo. A casa mia c'era una cucina molto variegata, piatti italiani, piatti francesi per mia nonna, i piatti sudamericani...
- Ricchezza e anche privazione dal punto di vista sociale?
Privazione forse no, noi stavamo molto bene economicamente. C'erano però anche svantaggi legati al fatto di non poter usufruire della cultura locale in un modo stabile. Perché ci sono tanti rituali nella nostra società, che una persona da fuori non conosce. Già il modo di salutare, come si invitano le persone alle feste, quali sono i linguaggi dell'amicizia, cosa è uno scherzo o una criticia. Non esiste un manuale per queste cose, vengono insegnate con la socializzazione.
- Lei hai vissuto in modo positivo questo allontarsi dalle e immergersi nelle varie culture, e forse per questo non si è creato un senso di appartenenza alle varie culture?
Io mi sento a casa in molti luoghi, ma ci sono persone per le quali ciò non accade. Quello che conta è il capitale economico della famiglia: se una persona è ricca è trattata bene ovunque, quando invece ci si deve guadagnare il pane con un lavoro umile o quando si è al margine della società, è chiaro che diventa tutto più difficile.
- Lei hai studiato in particolare questi aspetti?
Si, il progetto è stato pubblicato l'anno scorso in un libro grazie all'aiuto della biblioteca Claudia Augusta. Sono state anche realizzate videoregistrazioni con donne migranti. Tutto è cominciato con le Donne Nissà e io ho contribuito. Nella mia ricerca volevo comprendere qual è la narrazione di queste donne in Alto Adige, perché anche già qui ci sono narrazioni diverse tra i gruppi linguistici italiano, tedesco e ladino, narrazioni diverse tra gente che abita nelle valli e nelle città. E così anche le donne migranti hanno narrazioni molto diverse.
- Ha conosciuto diverse realtà di questo tipo?
Certo, i migranti vengono qui, sono portatori di molteplici appartenenze o anche solo di una. Ad esempio, conosco una donna cinese che ha un modo di abitare il territorio molto funzionale. Ha messo su una bella azienda con suo marito ma i suoi rapporti con la popolazione sono ridotti. A casa sua parla cinese e le abitudini sono rimaste quelle che aveva. Loro torneranno in Cina, il loro progetto migratorio è circolare, non hanno bisogno di sentirsi parte di questa terra, anche se qui si trovano bene.
Altre persone invece abitano il territorio scegliendo di appartenere al luogo in cui si trovano. Questo desiderio di dimenticare il luogo di appartenenza e di scegliere il luogo di arrivo come cultura di riferimento è rappresentato da un'altra donna, provienente dall'Europa dell'Est. Per usare le parole di Enzo Colombo, lei adotta la strategia del mimetismo, cercando di confondersi con la gente del posto. Probabilmente il motivo risiede in un passato doloroso che cerca di dimenticare. Gli altri la scambiano per una di qui e in sua presenza arrivano persino a parlar male dei suoi compatrioti non assimilandola a quel gruppo.
Poi ci sono anche persone che difendono la loro cultura molteplice, ad esempio donne del Sudamerica che sono riuscite a fondare delle imprese. Ho intervistato delle imprenditrici straniere, perchè la loro cultura aziendale sta avendo un successo strepitoso qui in Alto Adige, anche se la loro visibilità è ancora ridotta.
- Dare visibilità a queste esperienze è dunque il fine del progetto....
Dal tipo d'impresa si riesce a capire in che modo i migranti intendono porsi in relazione con il nostro territorio. Chi vende carne Halal offre un chiaro messaggio, le persone lo identificano come appartenente alla cultura islamica e si rivolgono a lui proprio per questo motivo. Poi ci sono quelli che si accorgono che qui manca qualcosa. Una donna cubana si è messa perciò a organizzare delle feste secondo lo spirito della sua terra. L'impresa ha avuto successo e il marito ha addirittura lasciato il suo lavoro per aiutarla. A mio avviso ciò dimostra che i valori di una certa tradizione, che hanno a che fare col mondo culturale di provenienza, possono anche essere utilizzati in senso imprenditoriale.
- Ci sono anche esempi negativi?
Certamente. Ho chiesto a una donna curda che cosa le piaceva di Bolzano e lei mi ha risposto di apprezzare il fatto di non dover calpestare i morti quando si reca al lavoro, di non essere costretta a vedere ogni giorno il sangue per la strada o di temere di essere colpita da un proiettile. Come si vede, quello che lei apprezza di Bolzano è molto diverso da quello che potrebbe pensare un turista.
- Lei ha in mente di continuare la sua ricerca sui contesti migratori in Alto Adige?
Si, io vorrei approfondire lo studio di questi gruppi, ad esempio di famiglie marocchine che sono arrivate qui in Alto Adige negli anni '80 e che abitavano all'inizio sotto i ponti. Poi sono si sono trasferite nei prefabbricati alla Vives, infine sono passati alla famosa collina Pasquali. Vogliamo raccontare le storie di queste prime migranti, far capire la loro esperienza. E naturalmente anche la reazione delle istituzioni, il modo con il quale sono state accolte e aiutate a risolvere i loro problemi d'inserimento.