Culture | I 25 anni dell'UTP

La follia produttiva del tradurre

Nonostante gli ottimi presupposti, la provincia di Bolzano non è ancora terra di veri traduttori. Il punto in un convegno tenutosi alla LUB.

L'Alto Adige/Südtirol, terra nella quale quasi ogni parola o frase è sdoppiata e tradotta, non ama le traduzioni e non tratta degnamente i traduttori. È questo, in estrema sintesi, il messaggio paradossale scaturito ieri (19 settembre) durante l'interessante convegno tenutosi nell'aula magna della LUB per iniziativa dell'Unione Provinciale Traduttori (UTP), associazione che proprio quest'anno festeggia 25 anni di vita.

Dopo i saluti della presidentessa dell'associazione, Cristina Cisotto, a mettere subito il dito della piaga è stato il professor Hans Drumbl, il quale ha perentoriamente affermato: “Questa grande aula mezza vuota dice in realtà già tutto. Un tema come quello della traduzione dovrebbe essere molto più sentito in questa città, in questa provincia, invece tendiamo a darlo per scontato, tanto da vanificare le nostre condizioni ideali”. Anche gli altri relatori “locali” della serata – Peter Sandrini e Renata Zanin – hanno rimarcato tale paradosso, auspicando la professionalizzazione di un'attività che non dovrebbe scadere a semplice trasferimento di informazioni da un codice a un altro, bensì assumere pienamente lo status di una delicata operazione interculturale. “In Alto Adige – ha affermato Sandrini – tendiamo a mettere in primo piano la competenza linguistica, partendo dal presupposto che chi è competente in una determinata materia sia anche in grado di offrire spontaneamente delle buone traduzioni. Tradurre non è quindi un'attività che viene valutata come competenza primaria, ma meramente accessoria, funzionale. Personalmente ritengo che la prospettiva debba essere rovesciata, bisogna spingere affinché il lavoro dei traduttori venga avvertito come un esercizio altamente professionale, e per questo è indispensabile il contributo di associazioni come quella che oggi stiamo festeggiando”.

Nella sua brillante relazione intitolata Idiomatische geprägte Sprache und prosodische Prägung, Zanin ha poi mostrato alcuni esempi di “incidenti” traduttivi alla luce di una imperfetta comprensione di quei contesti idiomatici e prosodici (vale a dire non solo ciò che diciamo o scriviamo, ma anche l'intonazione con la quale ci esprimiamo) a partire dai quali, soltanto, è possibile riversare le espressioni salienti di una lingua nell'altra. In Alto Adige questi “incidenti” – così Zanin – sono indice di un approccio superficiale all'essenza degli scambi interlinguistici e rivelano a loro volta un atteggiamento collettivo che andrebbe rivisto proprio facendo dell'attività del tradurre il focus di una metodologia d'indagine specifica.

Il clou del convegno è stato raggiunto infine dall'esposizione del professor Luca Illetterati (Università di Padova, nella foto), il quale è tornato a Bolzano a parlare di traduzione dopo averlo già fatto egregiamente, alcuni mesi fa, al Circolo Trevi. L'intervento di Illetterati (intitolato Vivere nella traduzione - La traduzione come pratica di vita) ha reso perspicuo da un punto di vista filosofico un aspetto essenziale: chi traduce non si trova in una situazione particolare o eccezionale, ma al contrario tocca la dimensione esistenziale più propria dell'essere umano, almeno se intendiamo l'essere umano come “un animale che parla e interagisce in un contesto sociale”. “Ogni modello di comprensione – ha affermato Illetterati sintetizzando le acquisizioni di George Steiner contenute nel libro After Babelè già un atto di traslazione e per questo motivo comunicare significa in modo eminente sempre tradurre”.

Immersi in contesti comunicativi contrassegnati da elementi di irriducibile alterità, gli esseri umani danno luogo a lotte interpretative che non possono essere decise una volta per tutte. Non esiste quindi una traduzione perfetta di un testo, perché, se esistesse, allora quel testo smetterebbe anche di vivere, letteralmente estinto da una autoreferenzialità che ne soffocherebbe il senso. Al contrario, “ogni traduzione produce nuovi occhi per guardare il mondo”, anche se chi si arrischia nell'impresa di far collidere e compenetrare due differenti mondi sfiora la follia (Blanchot), giacché costretto ad abitare la struttura aporetica di un'identità afferrabile solo in quanto differenza.

Come ha scritto Jacques Derrida – citato da Illetterati – “la pluralità impone e contemporaneamente proibisce la traduzione”, traduzione che diventa perciò “un compito impossibile e necessario”. Al pari di chi avesse soltanto uno specchio deformante per potersi guardare, se ambissimo togliere la deformazione saremmo anche costretti a rinunciare allo specchio, e dunque all'unica possibilità di afferrare la propria immagine. Esercizio di estrema finitezza, vero e proprio lavoro di Sisifo, ogni traduzione ci fa percepire ciò che Elias Canetti ha formulato, ancora una volta in modo aporetico, ne La provincia dell'uomo: “Traducendo perdiamo sempre qualcosa, forse la cosa più importante, ma si tratta di una cosa che può essere ritrovata soltanto mettendoci di nuovo a tradurre”.