Politico chi?
Un esercizio non solo semantico su un termine usato inconsapevolmente (ma speriamo non “all’insaputa”)
Essere definito “un politico” è un’offesa? L’altro giorno la senatrice Taverna (M5S) è stata in visita al problematico quartiere romano di Tor Sapienza, ed è stata apostrofata da alcuni “cittadini” (eh già…), che la accusavano di essere lì solo per farsi pubblicità – problema peraltro non risolvibile: chi va è accusato di speculare, chi non va di disinteresse, ma questa è un’altra storia. Ciò che ha fatto scalpore non sono state né la visita né gli insulti (ormai sono purtroppo normali entrambe le cose), ma la raffinata diatriba terminologica che si è sviluppata tra la senatrice ed alcuni manifestanti sulla definizione di “politico”. Il video ha fatto il giro del web e il punto saliente è quando qualcuno ha detto (traduciamo in semi-italiano) “qua nun vojamo politici” e la senatrice si è arrabbiata replicando “Io nun so’ un politico. Tu nun te poi permette de chiamarme politico”.
La cosa mi ha colpito. Anche perché, al netto del linguaggio, è una reazione che comprendo benissimo.
Prima la parte psicanalitica. In realtà quelle rare volte in cui ho sentito accostare al mio nome il sostantivo “politico” ho avuto reazioni contrastanti ma sempre problematiche. A volte emerge il mio grillismo sostanziale e lo prendo come un’offesa o quanto meno come un travisamento della realtà, visto che sono stato prima cercato e poi votato proprio in quanto “non politico”, e se lo diventassi tradirei il mandato ricevuto. A volte prevale invece il senso di frustrazione: il mio impegno “in politica” ha significato un pesante deterioramento della qualità della vita e dei rapporti personali (ormai praticamente inesistenti), e un abbattimento della mia autostima. Altre volte ancora è la (de)formazione professionale a farsi sentire: per chi si occupa di istituzioni, quello del “politico” è un ruolo nobilissimo, che mi sento inadeguato a svolgere perché sono al più un apprendista, un tirocinante, con contratto a tempo (molto) determinato, e usare il titolo mi parrebbe millantato credito. In ogni caso, per un motivo o per un altro, ho un problema serio e irrisolto con il sostantivo “politico” (l’aggettivo invece non crea difficoltà). La consapevolezza di avere un mal comune con la senatrice Taverna non basta a farne un mezzo gaudio.
E veniamo alla terminologia. Siamo sicuri di intenderci quando usiamo questo termine? Chi è “un politico”? Evidentemente esistono differenti percezioni. Il dizionario non aiuta molto (“chi è esperto nella politica, chi partecipa alla vita politica”) salvo presentare un’eloquente accezione figurata dell’aggettivo (“che sa barcamenarsi con abilità”), cosa che peraltro esiste anche in tutte le altre lingue. Se il politico è chi si impegna per la cosa pubblica lo siamo quasi tutti, e l’offesa è non esserlo perché significa disinteressarsi completamente di ciò che ci accade intorno (ce ne sono… e spesso li invidio). Oppure intendiamo per “politico” chi sia titolare di un mandato elettivo o rivesta un ruolo istituzionale, il che comprenderebbe anche l’ultimo consigliere dell’ultimo comune, magari indipendente e che svolge l’incarico nel tempo libero e senza retribuzione. Ed escluderebbe ad esempio il Segretario Generale della Presidenza del Consiglio o della Presidenza della Repubblica. Per contro, un’accezione ampia di “istituzione”, porterebbe a includere – che so – Rettori e Direttori di Dipartimento nelle università (e sarebbe giusto, mai visto tanta politica come nell’università, ce n’è di più che in Parlamento, solo senza sigle di partito). Ancora, il “politico” è chi fa parte di un partito (o movimento), così includendo nella categoria moltissime persone che non hanno ruoli istituzionali ed escludendo alcuni che questi ruoli li hanno senza essere vicini o componenti di un gruppo politico (vi ricordate i governi “tecnici”?). Si potrebbe poi definire “politico” chi trae il proprio sostentamento da una carica elettiva o da una funzione istituzionale, e così si escluderebbero sia quei parlamentari per i quali l’indennità è poco più di una mancia, perché il loro reddito viene da lavoro autonomo, magari propiziato dalla politica o viceversa (ex multis, gli avvocati di Berlusconi), sia chi fa politica gratuitamente, o chi la fa fuori dalle istituzioni. In una accezione negativa si può considerare “un politico” chi esercita o sfrutta il potere per trarne un vantaggio per sé o per altri. E allora il mondo è pieno di politici (grandi e piccoli), basta guardare in qualsiasi categoria professionale e ambiente di lavoro, e forse persino al di fuori del mondo lavorativo (nei rapporti personali, ad esempio). Sono politici i rappresentanti di categorie? E gli opinion leader? E i tecnici dei ministeri che scrivono le norme che il Parlamento approva spesso senza poterne nemmeno discutere? E tutti coloro che non ci mettono la faccia ma vivono e spesso prosperano grazie ai favori dei potenti di turno?
Il termine “politico” ha infiniti possibili significati, e forse interrogarci su quali prevalgono in noi può aiutarci nella nostra maturazione politica (appunto – ma qui è un aggettivo). Ma il solo fatto che il termine in sé possa essere considerato un’offesa – come dice apertamente la senatrice Taverna e come anch’io istintivamente spesso penso, salvo poi vergognarmene – ci dice comunque tanto, forse tutto del degrado sociale e culturale che si è raggiunto in questo Paese. Dove il termine più nobile del mondo è per gran parte della popolazione un insulto. E lo è perfino per chi ha l’onore di occuparsi pro breve tempore della cosa pubblica.