Culture | Letteratura

La trilogia dei grigi

Francesca Melandri presenta il suo romanzo “Sangue giusto”, sulla rimozione del passato coloniale in Etiopia: “La divisione del mondo tra bene o male non mi interessa".
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Foto: Gilberto Cavalli

Ieri, 20 settembre, una sala di rappresentanza stracolma ha accolto con affetto – e, in taluni casi, letteralmente abbracciato – la scrittrice Francesca Melandri, giunta a Bolzano per presentare il suo ultimo romanzo, “Sangue giusto” (Rizzoli). Ad accompagnarla nel corso della presentazione Gabriele Di Luca, collaboratore di Salto.bz e del Corriere dell'Alto Adige. Con raro rigore e dopo cinque anni di ricerche storiografiche – e di ricerca “interiore”, viene da aggiungere ascoltando le sue parole – Melandri ancora una volta tiene presente la linea di demarcazione tra l'opera indispensabile degli storici e il suo lavoro di scrittrice, ovvero il compito di narratrice. I romanzi di Melandri (“domatrice di digressioni” come la definisce Di Luca) arrivano a toccare quelle corde della nostra coscienza, della memoria collettiva e del sentire personale, che nessun saggio di storia sarà mai in grado di smuovere.

Ilaria Profeti sale a piedi i sei piani del condominio (senza ascensore) dove abita, nel quartiere “multietnico” dell'Esquilino, a Roma. Ad attenderla troverà un giovane, nero e dalle gambe lunghe, che le mostra il proprio passaporto etiope: “Mi chiamo Shimeta Ietmgeta Attilaprofeti – dirà paziente – e se Attila Profeti è tuo padre, allora tu sei mia zia”. Comincia così l'ultimo romanzo dell'autrice di “Eva dorme” (Mondadori, 2010) e “Più alto del mare” (Rizzoli, 2012). I tre libri sono concepiti come tre momenti di un unico progetto, la “trilogia del padre”, attorno alla paternità e alla patria: “I granelli di Eva dorme, Più alto del mare e Sangue giusto sono nati insieme”, ammette Melandri, “ed è un progetto che si chiude qui”.

La trilogia dei padri e un prezzo da pagare

“In Eva dorme il padre non c'è, è perduto e cercato – prosegue – come la patria, quella perduta dal Sudtirolo orfano della madrepatria asburgica; in Più alto del mare c'è un padre doloroso, il sentirsi un cattivo padre. In questo terzo libro, da scrittrice mi sono avvicinata a mio padre. Non è un libro su di lui: non è mai stato in Etiopia e non ha fatto nulla di cui vergognarsi. Ma è stato fascista, come la stragrande maggioranza degli italiani. Attilio Profeti e Ilaria Profeti non siamo noi. Il percorso di scoperta del padre, però, è assolutamente autobiografico”. Francesca Melandri analizza così una campata temporale di cento anni di storia, con un focus sugli anni trenta: “Non c'è stato un momento in cui ci si è fermati, per dire che ci siamo sbagliati. Attilio Profeti e la generazione di mio padre hanno questo in comune”. L'Italia è stata trattata da paese alleato contro l'occupante nazista, salvando la dignità nazionale: “Ora ne paghiamo il prezzo, perché lede la nostra psiche nazionale”.

Cinque anni e non un giorno di più

“Questo libro capita a fagiolo, nel momento in cui tra miserrimi fatti di cronaca si dibatte sullo ius sanguinis e ius soli: sembra scritto apposta pure il titolo” chiosa Di Luca, “e me ne dolgo” risponde Melandri: “Sono contenta, come autrice, di aver scritto un libro su questo. Ma quando iniziai a lavorarci cinque anni fa non mi aspettavo che la Bossi-Fini fosse ancora lì, la legge sullo ius soli bloccata in Parlamento, gli accordi con la Libia e Berlusconi ancora in giro. Nel romanzo c'è molto Berlusconi, sin dalle prime pagine, con l'incredibile e barocca situazione della visita di Gheddafi a Roma, con tende beduine e gheddafine scosciate con il corano in mano. Pensavo che il futuro non potesse essere mai più così orrendo. Non da scrittrice, bensì da cittadina, non sono per niente contenta: sono molto delusa”. Gabriele Di Luca elenca poi la lista delle colonie italiane, con i “cinque anni e non un giorno di più di occupazione in Abissinia”. Per Melandri “la pochezza politica di quest'esperienza, fallimentare da tutti i punti di vista, è la cartina di tornasole perfetta di cosa fosse il fascismo italiano: roboante retorica unita a crudeltà e macchiettistica incompetenza”.

Sovvertire gli automatismi linguistici

Secondo Di Luca, l'autrice di Sangue giusto “fa un uso virtuoso del concetto di ambivalenza, arte di cui è maestra: ad esempio, individuare il libico 'x' che corrompe l'immagine generale di una massa amorfa alla quale guardano gli storici o i sociologi”. O, come ricorda l'autrice stessa, il narratore può “dare un nome a una di queste persone che attraversano il Mediterraneo, incrociare la storia di un ragazzo – come Shimeta – che ha fatto questo terribile viaggio”. L'espressione “flussi migratori” (nei tempi della modernità liquida dove tutto è fluido) nasconde per Melandri “l'aberrazione della gestione dei flussi, parola idraulica, come se il mondo fosse fatto di tubi. La parola flussi mi repelle, è una delle tante strategie semantiche per de-umanizzare l'esperienza di quelle molecole d'acqua che sono esseri umani”. Melandri sottolinea inoltre l'asimmetria tra i due sguardi, il “noi vi conosciamo bene” degli etiopi – e il non conoscere l'Etiopia degli italiani: “È sconvolgente quante cose conoscono dell'Italia in Etiopia, ancora adesso. Si sentono legati a noi, a frammenti della nostra cultura nazionalpopolare come Gianni Morandi”.

Il grigiore di Attilio Profeti

“Un eroe dell'ambivalenza è Attilio Profeti, introdotto con le fanfare della negatività – nota Di Luca – Si esigono memorie da una persona in età avanzata, che si sta sgretolando dal punto di vista delle facoltà mentali. Noi siamo Attilio Profeti, la nostra società è affetta da una forma di Alzheimer conclamato. Ma è un personaggio negativo che a un certo punto comincia a starci simpatico: di là ci sta il male, ma questo male torna a essere liquido. La grande virtù e bellezza è che questo libro non è in alcun modo moralistico”. “La divisione del mondo in male e bene non mi è mai interessata – spiega Melandri – Io stessa non sono né buona né cattiva ma una mediocre e grigia via di mezzo. Gli estremi mi dicono poco, a me interessano quelli in mezzo, i grigi, tutte le sfumature della “curva gaussiana”: la mediocrità, la medietà, l'ambivalenza, la pasticcioneria dei sentimenti di Attilio. La sua grande fortuna è non essere mai messo difronte all'ineludibile scelta se stare dalla parte del bene o del male. La scelta sei eroe o sei carnefice gli viene risparmiata: è una domanda che non si è mai fatto e da cui si divincola con grande abilità. In questo è italianissimo”.

“Attilio Profeti è bello: la bellezza è il primo dei razzismi, donata agli esseri umani in modo arbitrario e ingiusto, ma che influisce sulla qualità della vita, gli studi, il lavoro”

Il Montanelli dentro di noi

In Sangue giusto Francesca Melandri racconta la storia d'amore di Attilio Profeti con una donna etiope, da cui nasce un figlio “che è un miracolo d'amore” si spinge ad affermare Di Luca: “C'è il rifiuto di fare del moralismo, con un giudizio di estremo relativismo”. Vengono in mente le interviste di Biagi e Bisiach a Indro Montanelli, quarant'anni dopo l'occupazione in Abissinia cui partecipò – e nel corso della quale sposò una donna per madamato: “Era un animalino docile, le costruii una capanna” dichiarò Montanelli senza remore. Attilio Profeti è meno peggio di Montanelli – precisa Melandri – ma quando il giornalista dice che lì tutti avevano mogli 12enni, dice un fatto vero, corretto fattualmente. Quando afferma 'non prendetemi per un pedofilo', gli do un briciolo di ragione: ogni cosa va messa all'interno di una circostanza. Mi indigna molto di più che un 'principe della penna', con tali strumenti espressivi, in 40 anni non abbia fatto mezzo millimetro di percorso cognitivo da quell'adrenalinica avventura giovanile che tutti avevano fatto. Quel buco dell'autocoscienza è spaventoso, non c'è nulla in mezzo. Mostrificare Montanelli – conclude la scrittrice – ci permette di non fare un'analisi collettiva dei tanti Montanelli”.