Meglio il francese dell'italiano
Nei primi giorni di gennaio sono usciti in Italia per la stessa casa editrice (Bompiani) due libri scritti da due notissimi autori europei e dunque annunciati come futuri bestsellers: Numero Zero di Umberto Eco e Sottomissione di Michel Houellebecq. Li ho letti subito anch'io, volendo conoscere da vicino ciò che potrebbe influenzare il dibattito pubblico (ammesso e non concesso che di libri, o a partire dai libri, ancora si dibatta), e mi sono ritrovato così a compiere un inevitabile raffronto. Infatti, anche se la comparazione può sembrare ingiustificata dalla loro profonda diversità, accostarli ci può aiutare a discernere due linee di tendenza riguardanti la vocazione attuale di un mainstream letterario, il nostro, cioè italiano, e quello invece altrui, in questo caso francese. Nulla più di una intuizione ovviamente, che avrebbe bisogno di ben altra superficie di prova e di appropriati strumenti d'indagine per essere confermata, ma che comunque mi è parsa non infondata leggendo in sequenza le due opere in questione.
In sostanza l'intuizione è questa: mentre Umberto Eco ha deciso di scrivere il suo ultimo romanzo rimanendo entro i confini di una realtà tutta italiana, incorporando riflessioni di carattere più generale, come quelle sul ruolo svolto dall'informazione nel modellare il consenso politico alla luce di fatti ed esempi comprensibili compiutamente forse solo a un lettore connazionale, il romanzo di Hoeullebecq, pur ambientato in Francia, impatta preoccupazioni e interessi ben presenti in tutti gli stati occidentali. Non è dunque un caso che il libro di quest'ultimo contenda a quello di Eco la palma del più venduto del momento giocando qui da noi “fuori casa”, mentre, a parti invertite, Numero Zero sia lontanissimo dai primi posti delle classifiche francesi.
Personalmente, e non solo perché molto più di successo, anch'io ho prediletto leggere il francese. Non è tanto il sentore provinciale, cioè il provincialismo del nuovo Eco a fornirmene il motivo, quanto piuttosto l'idea che un grande romanzo debba anche costituire la possibile chiave per decifrare una realtà quanto più estesa, sia nel senso della profondità temporale che in quello della sua determinazione spaziale. In altre parole: anche quando si occupa del passato, mi pare auspicabile che un libro illumini pure il presente e il futuro di chi lo legge (paradossalmente, Il nome della Rosa di Eco può insegnarci tantissimo proprio sulle attuali problematiche legate al fondamentalismo religioso o alla morbida avanzata dell'Islam di cui parla Hoeullebecq); in egual misura, non è certo vietato che un'opera letteraria non possa essere ambientata in un territorio circoscritto, al limite persino tra quattro mura, ma – io credo – sarebbe meglio potesse venir compresa in molti luoghi.
In effetti, il libro di Heuellebecq ha il merito di suscitare agli occhi di un lettore francese uno spettacolo che lo metterà in relazione a quanto sta avvenendo sulla scena mondiale e, ribaltando la prospettiva, informa chi non è francese su quanto drammatica sia ormai diventata la situazione in un Paese universalmente considerato il baluardo della laicità mentre ovunque imperversa il ritorno ossessivo del discorso religioso e della teologia politica. Al cospetto di un tale sommovimento le vicende di una piccola “redazione raccogliticcia”, messa in piedi per favorire l'ascesa di un furbo imprenditore nei salotti buoni di una società (quella italiana di vent'anni fa) ancora alle prese con lo spettro di Mussolini e le occulte trame di un potere amante dei complotti e perciò incapace di accettare la democrazia, appaiono tarate solo sulla nostra incapacità di sentirci veramente parte di un contesto più vasto.
Aggiornamento: un acuto lettore mi ha fatto notare che sarebbe difficile trovare il nuovo Eco in una classifica dei libri più venduti in Francia, in quanto in Francia il libro di Eco deve ancora uscire. In effetti è così. Quindi mi tocca azzardare: in Francia Eco venderà comunque molto meno di Hoeullebecq.